Il Savoiagate? Una bufala. Vittorio Emanuele assolto

Ricordate il «Savoiagate»? L’arresto a Roma di Vittorio Emanuele; il trasferimento a Potenza in auto (con i finestrini oscurati dai fogli di giornale); gli inviati di tv e carta stampata che bivaccavano davanti al carcere del capoluogo lucano; il principe che cade dal letto a castello della sua cella e si infortuna. Tutta scena, come in un reality show.
Un’accozzaglia di carta patinata a misura di gossip e carte giudiziarie a misura di processo: un mix imbarazzante tanto per l’informazione quanto per la magistratura. Un’inchiesta-flop, il «Savoiagate», dalla quale scaturì quell’altra mezza-bufala chiamata «Vallettopoli». Ma mentre per «Vallettopoli» si è giunti almeno a qualche condanna, per il «Savoiagate» è finito tutto in cavalleria; magari al grido di «Avanti Savoia!», potrebbe scherzosamente chiosare qualcuno. Fatto sta che ieri il principe Vittorio Emanuele è arrivata la rivincita: assolto perché il fatto non sussiste. Così il gup del tribunale di Roma ha fatto cadere tutte le accuse nei confronti del principe per il procedimento che lo aveva portato, nell’estate del 2006, in carcere, a Potenza. Anche il pm aveva chiesto l’assoluzione per l’erede di casa Savoia e per gli altri cinque imputati. L’ipotesi di reato loro contestata era di aver messo in piedi, a partire dal 2004, un’associazione per delinquere «impegnata nel settore del gioco d’azzardo e attiva nel mercato illegale dei nullaosta per videopoker procurati e rilasciati dai Monopoli di Stato attraverso il sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso».
L’organizzazione - secondo l’ipotesi iniziale - sarebbe stata dedita anche al «riciclaggio di denaro proveniente da attività illecita» tramite relazioni con casinò autorizzati, a cominciare da quello di Campione d’Italia. Con quest’ultimo - secondo l’imputazione ora caduta definitivamente - Vittorio Emanuele e altri imputati avrebbero instaurato un «rapporto stabile che prevedeva l’impegno a coinvolgere, con l’evidente finalità di farli giocare, facoltosi personaggi siciliani, amici di dell’eredi casa Savoia». Vittorio Emanuele rimase dietro le sbarre per sette giorni e poi per alcuni mesi agli arresti domiciliari. Il figlio, Emanuele Filiberto, si lasciò andare anche a dichiarazioni minacciose nei confronti del pm Woodcock, colpevole - a suo dire - di «perseguitare il padre con l’obiettivo di farsi pubblicità».
Gli atti dell’inchiesta condotta dal procura di Potenza furono trasferiti a Roma lo scorso febbraio, quando il tribunale lucano dichiarò la propria incompetenza territoriale accogliendo un’istanza della difesa del principe.
Insieme con Vittorio Emanuele di Savoia erano sotto accusa l’imprenditore messinese Rocco Migliardi, Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca. «L’esito assolutorio di ieri, relativo alla imputazione di associazione per delinquere, inizialmente contestata dal pm Woodcock a Vittorio Emanuele e ad altre persone, conferma definitivamente quanto già statuito nelle archiviazioni precedenti in ordine alle imputazioni connesse e consente di ribadire con maggior forza che gli arresti eseguiti quattro anni fa si fondavano su accuse inconsistenti», ha affermato l’avvocato Vincenzo Dresda, difensore di Ugo Bonazza, uno dei cinque imputati assolti ieri. «Il mio cliente - aggiunge il penalista - venne privato della libertà e sbattuto sulle prime pagine dei quotidiani nazionali bollato come il “ruffiano del re“.

Quest’uomo, come tanti altri, la sua reputazione se l’era sudata con una vita di onesto lavoro: un provvedimento giudiziario ingiusto e la conseguente gogna mediatica gliela hanno bruciata in un solo giorno». Non è stato il primo caso. E, purtroppo, non sarà neppure l’ultimo.

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