Gli «sbirri» bruciati da 43 anni di caccia

Chi si è avvicinato troppo alla cattura del ricercato numero uno, per un motivo o per l’altro, è finito nei guai

Gian Marco Chiocci

nostro inviato a Palermo

Dare la caccia a Provenzano ha sempre portato male ai cacciatori, se è vero che in quarantatré anni di latitanza chiunque abbia insistito ad avvicinarsi troppo alla tana, alla fine se n'è pentito. C'è chi ha perso il posto, la vita, la stima dei colleghi. Chi s'è ritrovato stritolato dai veleni, condannato dalla mafia o dai tribunali. Inseguire il Padrino ha portato male, per cominciare, al miglior sbirro antimafia che la piazza siciliana abbia mai conosciuto: Bruno Contrada. L'ha confermato ieri al Giornale l'ex responsabile della Criminalpol, Roberto Scotto: «Sciolsero il gruppo investigativo di Contrada, prossimo alla cattura di Provenzano, perché - dice - era ormai deciso l'arresto del dottore (Contrada, ndr). Se avesse catturato il capo della mafia come avrebbero potuto sostenere che era mafioso? Dopo le stragi del '92 la moglie e i figli del boss fecero ritorno a Corleone così decidemmo di fare una perquisizione a casa per provocare una reazione dei figli. Avevamo i registratori in tasca, ci serviva la voce dei ragazzi da sottoporre a un esperto in filologia linguistica che ci confermò l'inflessione trapanese, a dimostrazione che erano cresciuti proprio lì, dove noi avevamo appena localizzato anche la moglie di Provenzano e dove alcune maestre, in seguito, riconobbero in foto i ragazzi. Sapevamo inoltre che Provenzano era sicuramente in zona anche grazie alle precise indicazioni carpite con l'intercettazione del telefono di Carmelo Califfo, nipote del Padrino. Ma quando stavamo per chiudere il cerchio - conclude Scotto - da Roma venne l'ordine di sciogliere il gruppo. Capii il perché quando a Natale arrestarono il dottore».
Per la cronaca, Contrada venne poi processato e paradossalmente condannato quale amico della mafia.
È andata male all'ex comandante del Ros, Mario Mori, scagionato dal favoreggiamento per la mancata perquisizione del covo di Riina, ma ancor oggi accusato dalla Procura di Palermo d'aver favorito Provenzano - stando alle rivelazioni del subalterno colonnello Michele Riccio - per non aver dato un seguito alle soffiate del pentito Luigi Ilardo che, nell'ottobre del '95, posizionava la primula corleonese in una masseria di Mezzojuso. Quello stesso casolare, con il medesimo ospite illustre, sarà oggetto di un altro polemico blitz nel febbraio 2001 dove, al posto di Provenzano (che si godrà la scena nascosto in un ovile poco distante), verranno arrestati il boss Benedetto Spera e il picciotto Nicola La Barbera. Fra i poliziotti scoppiò il finimondo sia perché il vice capo della gloriosa squadra mobile, Claudio Sanfilippo, scoprì d'esser stato tenuto all'oscuro dell'operazione nonostante i meriti per le catture di Giovanni Brusca e Pietro Aglieri, sia perché venne fuori che nessuno aveva trasmesso al questore Tuccio Pappalardo, al vice capo della polizia, Antonio Manganelli, e al procuratore capo, Piero Grasso, il contenuto di una registrazione con la voce, captata da una microspia, che si credeva fosse di Zu Binnu. In Questura volarono gli stracci per parecchio tempo.
La maledizione di Provenzano colpì inesorabilmente il comandante del Ros, Sabato Palazzo, il quale presentò formale protesta scritta in Procura perché - a suo dire - era stata bruciata una loro preziosissima pista convergente sul picciotto La Barbera. Il procuratore Grasso rimandò al mittente le accuse, mentre il comandante generale dell'Arma, Sergio Siracusa, anziché difendere il suo generale, lo scaricò. Pagò dunque Palazzo, ma prima di lui - sempre per star dietro a questo diavolo di Provenzano - aveva pagato, autosospendendosi, anche il mitico capitano Ultimo che, dopo aver preso Riina, si era messo in testa, seguendo il solito La Barbera, di stanare Provenzano. Purtroppo, però, Ultimo prese a polemizzare coi superiori romani per la mancanza di uomini e mezzi. Al dunque sbattè la porta, rinunciò all'impresa, e venne trasferito. Anni dopo seppe dal pentito Salvatore Cancemi che Provenzano aveva dato ordine di sequestrarlo e, dalla Procura, che era finito sott'inchiesta per i misteri del covo di Riina. Grazie all'invisibile capomafia ha passato i suoi guai anche il maggiore dei carabinieri Giuseppe De Donno, costretto a lasciare Palermo dopo il devastante dossier mafia-appalti con precise accuse riprese anni dopo da una nota riservatissima del Sisde incentrata sulla conoscenza dei covi di Provenzano da parte di settori istituzionali. Nell'elenco maledetto del Tutankhamon di Corleone va inserito il nome del maresciallo di Terrasini, Antonino Lombardo, suicida nell'imminenza dei viaggi americani per riportare in Italia il boss Badalamenti, che su Provenzano aveva relazionato moltissimo grazie a preziosi confidenti, che un ottimo lavoro avevano già fatto indicando nel quartiere della Noce il nascondiglio di Totò u' curtu. Per non dire di Mario Iannelli, ufficiale del Gico-Finanza: nel 1998 accertò che l'ingombrante fantasma di Cosa Nostra, per problemi di salute, era costretto a far la spola tra Bagheria e Trapani.

Aveva ottenuto l'ultimo riscontro quando venne sbattuto a scaldare la sedia nella capitale in seguito alla circolare del Viminale che ridimensionava i reparti scelti, a cominciare dal Gico di Palermo, che si vide sfilare sotto il naso il capitano Alessio Nardi e il colonnello Marco Nani, due ufficiali che sapevano ormai tutto di don Bernardo, tanto da sognarselo una notte sì e l'altra pure.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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