"Gli scavi più importanti tutti nel Mediterraneo"

Un grande archeologo racconta la caccia alle antichità e ipotizza le prossime scoperte

"Gli scavi più importanti tutti nel Mediterraneo"

Una pietra è una pietra, due pietre sono un indizio, tre pietre fanno un muro. Almeno questo è lo spirito che deve avere un archeologo per fare grandi scoperte. Ma com'è davvero il mestiere dell'archeologo? Per capirlo abbiamo intervistato Eric H. Cline, celebre autore di Tre pietre fanno un muro. La storia dell'archeologia (Bollati Boringhieri, pagg. 478, euro 26). Cline, che dirige il Capitol Archaeological Institute della George Washington University, non è soltanto uno degli archeologi più quotati al mondo - è forse il più grande esperto della storia della Palestina antica -, è anche un divulgatore dalla penna agile. Lo si nota anche nel suo nuovo saggio (sempre Bollati Boringhieri) proprio dedicato a come materialmente si svolgono le campagne archeologiche: Negli scavi. L'archeologia raccontata da chi la fa (pagg. 126, euro 16).

Professor Cline, quali sono le principali competenze che un archeologo deve possedere oggi?

«Dico ai miei studenti che un archeologo deve avere pazienza, una certa attitudine nel prestare attenzione ai dettagli, un'eccellente immaginazione, la volontà di lavorare per molte ore, probabilmente per una paga piccola, buone capacità relazionali - tra le quali spicca la capacità di ingegnarsi a fare la qualunque - e, soprattutto, un buon senso dell'umorismo».

Negli scavi, si passa da tecnologie molto recenti a strumenti antichi come il piccone. È così?

«Sì, ora utilizziamo tutti i tipi di strumenti e tecnologie. Usiamo ancora i metodi collaudati di scavo con cazzuole, spazzole, picconi e così via, ma entrano in gioco anche apparecchiature digitali ed elettroniche, dal telerilevamento per vedere cosa c'è prima di scavare - registrando tutto su laptop e archiviando i dati - all'uso dei droni per scattare le fotografie e i video in modo da documentare tutto».

L'archeologia è ancora un mestiere muscolare?

«Per la maggior parte lo è, sì. Scavare è molto più estenuante e molto più fisico di quanto la maggior parte delle persone immagini. Entro la fine di una stagione di scavo, a furia di spostare secchi pieni di terra, ai membri della squadra di solito sono cresciuti dei bei muscoli e hanno perso peso. Una cosa è leggere dell'uso di picconi, del trasporto di secchi pieni di trenta libbre di terriccio... e un'altra è farlo. La maggior parte dei volontari sostiene che noi archeologi pubblicizziamo male i nostri scavi: dovremmo pubblicizzarli come cliniche per la dieta e il fitness, dove si può rimettersi in forma scoprendo antichi resti».

Avete a che fare con oggetti fragili... Capita di rompere qualcosa?

«Sì, può succedere. Ma molto di ciò che troviamo era già rotto molto tempo fa, nell'antichità, quindi siamo abituati a rimettere insieme le cose».

Ci sono stati approcci archeologici sbagliati, come quello di Heinrich Schliemann a Troia. Esiste ancora il rischio di errore?

«Sì, certo. Ecco perché al giorno d'oggi non scaviamo mai un intero sito in una volta, o anche tutto un singolo livello in un sito; quasi sempre lasciamo qualcosa a volte molto per i futuri archeologi, in modo che possano controllare il nostro lavoro ed eventualmente procedere con strumenti migliori o tecniche più avanzate di quelle che abbiamo ora. È anche il motivo per cui scaviamo spesso una piccola trincea di prova, per vedere qual è l'approccio migliore».

Nell'immaginario comune, il risultato archeologico è dato dalla scoperta eccezionale. Ma...

«È sempre interessante e utile trovare reperti eccezionali che catturano l'immaginazione, come la tomba di re Tut, ma vogliamo anche essere in grado di capire com'era la vita per la gente comune nell'antichità. Oggigiorno siamo in grado di fare molto di quella che viene chiamata microarcheologia, dove osserviamo cose come il polline antico per determinare com'era il clima e/o l'ambiente; ora miriamo a cercare di capire cosa mangiavano, indossavano, credevano e così via nel mondo antico. È sempre di grande utilità anche trovare iscrizioni, o archivi con tavolette, lettere e altri testi antichi... Una singola tavoletta può svelare tantissimo».

Le tecniche per datare gli oggetti antichi funzionano sempre?

«Sfortunatamente no; non sono sempre efficaci. Ma più spesso lo sono, e ora abbiamo molte tecniche diverse che usiamo per datare oggetti antichi - la tecnica che si decide di usare sarà spesso determinata dal periodo che si sta studiando. Pertanto, il carbonio-14 è molto utile per oggetti che hanno più di qualche centinaio di anni ma al massimo meno di 50mila anni; per qualcosa di più vecchio di quello, ci sono altre tecniche».

Quali sono le scoperte più importanti degli ultimi vent'anni e quali vorreste per i prossimi venti?

«Secondo me, le scoperte più importanti degli ultimi vent'anni includono... I nuovi affreschi e reperti a Pompei ed Ercolano; le scoperte di varie città Maya in America centrale, nuove o più grandi di quanto si pensasse, utilizzando LiDAR; Göbekli Tepe, in Turchia, sebbene i lavori iniziali siano iniziati circa 25 anni fa; le sequenze di Dna da sepolture ad Ashkelon, così come in altri siti; le prove della siccità e del cambiamento climatico alla fine della tarda Età del bronzo, circa nel 1200 a.C. Per quanto riguarda i prossimi vent'anni, personalmente mi auguro scoperte che risolvano il mistero delle origini dei Popoli del Mare magari in uno o più siti in Italia, Sicilia o Sardegna. Sarebbe meraviglioso anche se si facessero scoperte che ci permettessero di decifrare e leggere veramente l'etrusco, la lineare A, il cipro-minoico e simili... E ovviamente sarebbe meraviglioso se qualcuno scavasse la tomba dell'imperatore cinese Qin».

Alcuni lettori potrebbero chiedersi: è possibile partecipare a una campagna di scavo?

«Sì, è decisamente possibile; infatti, molti scavi dipendono dai volontari come parte principale della squadra di scavo».

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