Scettico, cinico, elitario: un Pareto duro da scalare

Anticipò il concetto di conoscenza probabilistica. E lesse la storia come un succedersi di "minoranze"

Disegno di Dariush Radpour
Disegno di Dariush Radpour

Un autentico ma eccentrico liberale come Paolo Vita-Finzi dedicò a Vilfredo Pareto un intero capitolo di quel suo delizioso libretto intitolato Le delusioni della libertà (IBL Libri) che, apparso nel 1961, offriva una panoramica suggestiva (ma per molti dei lettori dell'epoca alquanto urticante) di intellettuali, francesi e italiani, che sarebbero stati «inconsapevoli precursori del fascismo», avendo messo in discussione principi e meccanismi del parlamentarismo. Egli ci presenta il grande economista e sociologo come «critico implacabile di tutto e di tutti», un personaggio che richiama alla mente «un Longanesi scientifico con la barba bianca alla d'Aragona» il quale «dovunque colpisce lascia il segno» anche se «a dispetto dell'ostentata imparzialità le sue frecce più frequenti e più puntute sono dirette contro la democrazia parlamentare».

In effetti, una caratteristica di Pareto fu proprio quel gusto della polemica e dell'invettiva che egli alternava, o combinava, in maniera apparentemente contraddittoria e paradossale con l'esaltazione della «neutralità» della ricerca scientifica. Scettico con qualche venatura di cinismo, nemico di tutte le ideologie assimilate a religioni laiche, passionale e ironico, cultore della libertà e delle libertà, era, a ben vedere, un vero conservatore.

Rampollo di una famiglia dell'aristocrazia ligure, egli nacque nel 1848 a Parigi, dove il padre si era rifugiato come esule politico perché mazziniano. Compiuti gli studi in Italia si laureò in ingegneria al Politecnico di Torino e si trasferì a Firenze, dove entrò in rapporti di amicizia con i moderati toscani. Qui, accanto all'attività professionale iniziò il lavoro pubblicistico in difesa del libero-scambio e contro le politiche di tipo protezionistico.

Nell'ultimo decennio del secolo decimonono - scoperta l'economia pura e, grazie a Maffeo Pantaleoni, Léon Walras, del quale sarebbe stato successore nell'insegnamento di economia politica all'Università di Losanna - si dedicò alla attività scientifica e accademica abbandonando altri impegni pratici. Apparvero, così, le sue opere più importanti, dal Cours d'Économie politique (1896-1897) al Trattato di sociologia generale (1916) passando per Les systèmes socalistes (1902) e il Manuale di economia politica (1906). E si precisarono le tappe di un edificio teorico e scientifico la cui solidità non è stata intaccata dal trascorrere del tempo.

Indossando le vesti dello scienziato, Pareto sosteneva che l'economia dovesse essere studiata come si studiano le scienze naturali, aggiungendo che, comunque, non sarebbe stata mai possibile la conoscenza, «in tutti i suoi particolari», di «alcun fenomeno concreto», potendosi al più «soltanto conoscere dei fenomeni ideali, che si avvicinano sempre più al fenomeno concreto»: anche le «leggi» scientifiche perdevano, così a suo parere, il carattere di certezze assolute e si trasformavano in «uniformità» destinate a ripetersi rebus sic stantibus, cioè a parità di condizioni. Era, questa, una affermazione rivoluzionaria che introduceva a livello epistemologico quel concetto di conoscenza probabilistica che avrebbe caratterizzato poi - si pensi alla meccanica quantistica e al «principio di indeterminazione» di Werner Karl Heisenberg - le scienze esatte.

Il passaggio dall'economia alla sociologia fu naturale: per esempio la curva di distribuzione dei redditi equivale alla curva di eterogeneità sociale, che illustra la stratificazione sociale, cioè la disposizione dei ceti all'interno della società e mostra anche come il ceto borghese rappresenti il vero e proprio serbatoio delle élites tanto economiche quanto politiche.

Il nome di Pareto sociologo è legato indissolubilmente, insieme a quelli di Gaetano Mosca e di Roberto Michels, alla cosiddetta «teoria delle élites», un filone speculativo che si innesta sulla tradizione «machiavelliana» di realismo politico. A tale teoria egli offrì un contributo fondamentale introducendo i concetti di «circolazione delle élites» e di «velocità di circolazione». Una frase famosa - «la storia è un cimitero di aristocrazie» - sintetizza il suo pensiero e la sua visione della storia che non è affatto «ciclica», ma «ondulatoria» con situazioni che possono riproporsi in circostanze e modalità tuttavia diverse e delle quali sono, comunque, protagoniste le élites. In altre parole la storia è un continuo succedersi di «minoranze», le élites appunto, che, di volta in volta, si formano, entrano in competizione e, ricorrendo alla forza e all'astuzia, conquistano il potere, ne profittano, decadono e sono puntualmente sostituite da altre «minoranze» a loro volta in grado di imporsi.

Indagatore delle «azioni logiche» e di quelle «non logiche» proprie dei comportamenti individuali e collettivi, Pareto sosteneva la «neutralità» e la «avalutatività» della ricerca scientifica. Cionondimeno seguiva la vicende politiche ed economiche con partecipazione e passionalità cercando di spiegarle, a sé e agli altri, con i risultati dei suoi studi. In questo quadro rientra, per esempio, quella lucida analisi della disgregazione dell'autorità statale e della degenerazione della «democrazia» in «plutocrazia demagogica» contenuta negli articoli poi confluiti in Trasformazione della democrazia (1921) che costituiscono una eccellente spiegazione del formarsi delle condizioni favorevoli all'avvento del fascismo al potere.

Al movimento fascista egli guardò con simpatia e attenzione. Nell'aprile del 1923 a un giornalista ch'era andato a intervistarlo nella villetta di Céligny dove viveva in compagnia di tanti adorati gatti, disse che a «questo fenomeno politico di particolare interesse» aveva guardato con «la visione assolutamente obiettiva» usata «nell'esame d'altri molti fenomeni politici, economici e sociali» cioè col suo «solito metodo sperimentale». E il giudizio era stato positivo: all'inizio il fascismo si era presentato come «una reazione spontanea e un po' anarchica d'una parte della popolazione contro la tirannide rossa a cui i precedenti Governi avevano concesso ogni licenza», poi si era affermato perché aveva dato «una meta attiva alla religione nazionalista di difesa dello Stato e di rinnovamento sociale».

Mussolini si considerava suo discepolo, tant'è che lo fece includere nella lista da sottoporsi al Re per la nomina dei senatori del Regno. In realtà quella nomina non andò a buon fine perché Pareto non esibì i documenti richiestigli non già - come è stato erroneamente sostenuto - per antifascismo, ma perché non erano in regola essendo egli nel frattempo divenuto cittadino fiumano per poter divorziare. La verità è che, morto il 19 agosto 1923, egli del fascismo vide solo l'inizio e, al pari di tanti liberali di orientamento conservatore, ne fu sedotto.

Forse, se fosse vissuto di più, ne sarebbe diventato un avversario. Ma questo è un altro discorso. Rimane il fatto che la sua opera, tanto economica quanto sociologica, resta un monumento insuperato. E, probabilmente, insuperabile.

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