LO SCISMA DI VICENZA

Lo scontro politico avvenuto all'appuntamento confindustriale di Vicenza, e sottolineato dall'intervento di Silvio Berlusconi, dice fondamentalmente che il bipolarismo non ha confini e non contempla zone di neutralità. In un Paese che è alla vigilia di un voto decisivo, l'assemblea degli imprenditori non poteva dare di sé l'immagine virtuale di una «piccola Svizzera», di un potere pronto a trarre comunque dei vantaggi, a prescindere dallo schieramento che risulterà vincente il 10 aprile. I vertici nutrivano certo questa illusione, convinti, loro sì, di poter tirare per la giacca Romano Prodi e di trovare uno scambio tra le loro richieste e un programma, quello dell'Unione, mutuato in gran parte dalla Cgil. Un'illusione tutta politica, che però rievoca parole chiave come consociativismo e concertazione che appartengono al passato. Qui sta la debolezza della simpatia esplicitamente dichiarata nei confronti del centrosinistra e della sua leadership, sta nella contraddizione tra un progetto di restaurazione, attorno allo Stato mediatore e compensatore, e il cambiamento avvenuto nel Paese e certamente metabolizzato da una parte importante del mondo imprenditoriale.
Le polemiche sull'intervento del presidente del Consiglio, le stesse contestazioni sui toni usati, lasciano il tempo che trovano, appartengono all'eruzione della propaganda elettorale. Quel che conta, in questo caso, è il merito degli argomenti. C'è una riflessione di Berlusconi, nella sua lunga intervista a Liberal, che è utile per comprendere la spaccatura avvenuta nell'assemblea di Vicenza. È dove dice che, dal 1994, è stata compiuta una rivoluzione copernicana: prima la parola chiave era una sola, cioè lo Stato, ora le parole chiave sono altre, la persona, la famiglia, l'impresa. E dove aggiunge che «noi abbiamo dato rappresentanza e capacità d'azione a un sentimento largamente diffuso nella società italiana condiviso da un blocco sociale di milioni di persone a cui la politica non dava ascolto, preferendo imporgli tasse per nutrire il leviatano statalista».
Se il berlusconismo è stato ed è fondamentalmente questo, se il bipolarismo resiste attorno ad una simile alternativa, solo chi ha una visione deformata di quel che accade in questo Paese, può stupirsi di ciò che è avvenuto sabato. Non c'è invece da stupirsi, si è trattato di uno dei rari momenti di chiarezza della campagna elettorale. Chiarezza in un senso: è apparsa una componente di quel blocco sociale su cui Berlusconi rifletteva nell'intervista a Liberal. Ed è apparsa in un mondo i cui vertici negli ultimi anni si sono impegnati direttamente in politica, hanno scommesso sul centrosinistra con una scelta certamente legittima, indebolita però dalla pretesa di rivendicare una neutralità che, invece, è andata sempre più sfumando. E che è stata sostituita da un'altra pretesa, quella di svolgere una precisa funzione di indirizzo a tutto campo, affiancandosi al progetto di alternanza impersonato da Prodi e alzando continuamente il prezzo con il governo. È la condizione del bipolarismo? Può darsi, ma non si poteva pensare che alla fine questa contraddizione non esplodesse.
Curioso è infine il fatto che il presidente Montezemolo mostri di non accorgersene e si trinceri dietro la parola delegittimazione.

Appare, questo atteggiamento, come una fuga dal problema che si è posto, problema che non è certo personale, ma riguarda la visione del futuro italiano e il contributo che il mondo imprenditoriale può concretamente dare dopo la rottura - che investe l'intera Europa - tra la stagione dello statalismo pervasivo e la stagione della modernità.

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