«Sconcertato dai moralisti che attaccano Napolitano»

RomaProfessor Mauro Leone, che le viene in mente?
«In mente cosa, scusi?...».
Dico: se ne stava bel bello nel suo studio d’avvocato, tutt’al più calato nei suoi studi di diritto.
«Sì, certo... Appunto».
Dal ’93 se ne stava lontano mille leghe dalla politica...
«Vero, per mia scelta».
Uno studio che ha cent’anni, anzi centocinque.
«Fu fondato da mio nonno, Mauro, che all’inizio lavorava con Enrico De Nicola».
E suo padre, il principe del Foro napoletano: chi può dimenticarlo.
«Come si fa».
Confermi che il figlio primogenito - e prediletto - di Giovanni Leone non accarezzi l’idea di fare politica.
«Per carità, a sessant’anni mi bastano i miei studi».
Allora, ripeto: come le viene in mente di rompere il dorato isolamento per intervenire sul circo barnum delle liste?
«Perché sono sconcertato, amareggiato, deluso».
Ma da chi?
«Da certi falsi moralisti, da certi personaggi che pure hanno tradizione politica, che pure hanno conoscenze giuridiche, eppure non hanno avuto la capacità di capire che il diritto è più importante di queste beghe elettorali. Hanno lasciato solo il presidente Napolitano... e qualcuno persino criticato la sua scelta di accettare il decreto».
Dicono che l’arbitro non possa scendere in campo.
«E qui, se mi consente, c’è un primo errore madornale. Giuridico innanzitutto: il presidente, nella nostra Carta, è tutt’altro che una figura notarile. Non è affatto vero che non abbia la titolarità di un potere di moral suasion, che si esercita in forme particolari, spesso anticipando gli errori e indirizzando la politica verso la strada più corretta».
Parla il professore di diritto e procedura penale.
«Parlo più da figlio e segretario particolare di mio padre al Quirinale per un settennato. Sa che fece papà quando gli fu chiesto dalla Dc di avallare la richiesta di un’amnistia per alcuni reati di colletti bianchi, a beneficio di certi amministratori locali?».
No, che cosa rispose?
«“Ma stiamo scherzando?” fece all’allora segretario Piccoli. E spiegò che mai e poi mai avrebbe sottoscritto una legge del genere. E se avessero insistito, facendola approvare in Parlamento, non avrebbe esitato ad aprire un conflitto di poteri».
Dunque il capo dello Stato è una figura che ha il dovere di intervenire se c’è un vuoto di poteri o il sistema non ha la forza di risolvere situazioni complesse?
«Più o meno è così. Non potrebbe essere altrimenti. Il grande giurista Carlo Esposito aggiungeva che il senso di responsabilità connesso alla figura del presidente, che è garante e rappresentante dell’unità nazionale, si traduce in una leale collaborazione con il governo in carica. Così anche Costantino Mortati, uno dei padri costituenti».
Come suo padre.
«Certo. Altro che “notaio”! Persino De Nicola, che ebbe degli scontri clamorosi con De Gasperi, non rinunciò né alla leale collaborazione né a svolgere il suo ruolo».
Napolitano ha salvato capra e cavoli per tutti.
«Altroché, s’è assunto con coraggio una responsabilità, posto che il clima elettorale e gli stessi partiti non riuscivano a trovare una soluzione. I cittadini devono ringraziarlo: siamo più tranquilli, grazie a lui. Ma credo che vada ringraziato anche il premier Berlusconi, che in una situazione del genere s’è dimostrato capo di un grande partito, agendo con equilibrio e senso di responsabilità».
Si riferisce a quello che è stato definito «vittimismo della maggioranza»?
«Anche. Perché se da un lato ha saputo difendere il diritto degli elettori a poter scegliere, dall’altro non ha ceduto alle suggestioni della piazza. Sono materie che è bene discutere nelle istituzioni».
Già, però nel Pdl qualcuno ha peccato di leggerezza.
«È uno di quei casi per i quali si possono rivalutare i professionisti della politica e le strutture dei vecchi partiti. Pensi che fino al ’63 a presentare le liste della Dc ci andavo anch’io...».
Detto ciò, il rispetto delle regole non è la natura stessa della democrazia?
«Convengo. Ma qui bisognava conciliare questa esigenza con il rispetto del diritto degli elettori a poter scegliere. Esposito e Mortati parlavano di regole minimali. E qui, più che di regole, siamo nel campo di requisiti minimali: una legittimazione a essere giudicati dagli elettori, sulla quale una volta, per tacito accordo, i partiti non si davano fastidio. Tanto che le commissioni di controllo svolgevano semmai una funzione di pacificazione».
Burocrazia vecchia?
«Timbri e timbretti, che potevano magari avere un senso ai miei tempi, nell’epoca del web sono totalmente superati. E le ricordo che in tanti casi la semplificazione amministrativa dà valore all’autocertificazione, cosa che si poteva fare anche in questo caso».
Gli avversari ci marciano.
«Ai miei tempi nessuno metteva il naso in questioncelle di questo tipo, di lana caprina, che i partiti superavano di comune accordo. Affinché la competizione fosse giusta e regolare».
Perché il Pd non l’ha fatto?
«Ha la faccia rivolta verso il passato, nonostante le grandi tradizioni politiche dalle quali provengano i suoi.

Ricordo però che Togliatti, dopo l’attentato, seppe fermare i suoi, già in armi...».
Di Pietro invoca l’impeachment, che non esiste.
«Troppi telefilm americani. Non vorrei fare polemiche, ma la richiesta è strampalata. Per capirlo basterebbe leggersi almeno una volta la Costituzione».

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