Se Fassino scopre che è giusto trattare

Piero Fassino sostiene adesso che con i brigatisti rossi «bisognava forse trattare» nel tentativo di salvare la vita di Aldo Moro: questo perché «non c’è ragione di Stato che vale una vita umana». Non so da cosa il segretario diessino sia stato indotto ad una affermazione che smentisce - e quasi criminalizza - le scelta della «fermezza», ossia del rifiuto ad ogni negoziato, compiuta quasi trenta anni fa. Scelta che fu sostenuta dalla Democrazia cristiana nella persona di Giulio Andreotti, dal Pci nella persona di Enrico Berlinguer, e da una parte molto consistente dell’opinione pubblica. A quella scelta si associò senza esitazioni Indro Montanelli e io con lui. Diversamente da Fassino, non me ne pento.
Forse Fassino vuole adesso legittimare, appellandosi alla maggior tragedia politica vissuta dall’Italia nel dopoguerra, i comportamenti e le procedure adottati dal governo Prodi nella vicenda di Daniele Mastrogiacomo: comportamenti e procedure dei quali dobbiamo quotidianamente registrare le conseguenze disastrose. Mastrogiacomo si è salvato, e ne siamo ovviamente lieti. Ma il suo autista è stato sgozzato barbaramente, il suo interprete è prigioniero dei talebani che pretendono la liberazione d’altri loro sanguinari affiliati per rilasciarlo, il mediatore di Emergency è sotto interrogatorio della polizia di Kabul. Non c’è male come coronamento d’una operazione per il cui esito Prodi e D’Alema hanno inscenato un trionfo al cui confronto quello dell’Aida è robetta.
Non mi nascondo, diversamente da Fassino - e questo costituisce per il governo un’attenuante - la diversità tra le due situazioni. L’assoggettarsi alle imposizioni di assassini che, in territorio straniero, e dunque in teoria al di fuori di ogni nostra giurisdizione, tengono nelle loro mani un concittadino, è meno grave che assoggettarsi alle imposizioni di terroristi italiani, in Italia, che hanno sequestrato uno dei massimi rappresentanti delle istituzioni. Formalmente, Prodi e D’Alema possono attribuire al povero Karzai la responsabilità dello scambio. Resta il fatto che si è venuti a patti con i sequestratori dopo che di una «vita umana», per usare il linguaggio del segretario Ds, avevano fatto scempio.
Converrà a questo punto aggiungere, per chi sembra averlo dimenticato, che i brigatisti ai cui diktat ci si sarebbe dovuti acconciare affinché Moro uscisse dalla «prigione» di via Fani avevano già sterminato la scorta del politico dc: cinque cadaveri di servitori dello Stato che lo Stato avrebbe dovuto calpestare, importandogli evidentemente una sola vita, tra sei. Craxi fu allora per il cedimento, e questo viene considerato da alcuni la dimostrazione dell’errore chiamato fermezza. Scrissi al tempo, e lo ripeto tranquillamente adesso - con la speranza di non essere per questo definito un reazionario crudele - che Craxi aveva torto. E poco importa che io abbia avuto e abbia considerazione per il politico Craxi, e invece non abbia condiviso né l’ideologia di Berlinguer né i tatticismi strategici e tattici di Andreotti.


Ritengo che vi sia stato molto di criticabile e di poco rispettabile nel salvataggio di Daniele Mastrogiacomo, ma con lui si era al livello d’una azione umanitaria per un singolo cittadino: si può, con molta buona volontà, essere indulgenti. Con Moro erano in giuoco - dopo cinque ammazzati, lo ribadisco - l’onore e la dignità del Paese; e il significato della lotta al terrorismo. Non ci si poteva piegare.
Mario Cervi

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