Se si gioca a boicottare l’impegno dell’Italia

FUOCO AMICO L’esecutivo si batte per l’interesse nazionale. Ma nel Paese c’è chi pensa solo al particolare

Martin Schulz, capo degli eurodeputati socialisti, ha detto che Massimo D'Alema non è diventato euroministro degli Esteri perché proposto da Silvio Berlusconi, poi ha spiegato che D'Alema non era appoggiato dal governo. I comportamenti più stupidi rivelano verità che i politici intelligenti sanno mascherare.
Da sempre la scena europea è segnata anche da interessi nazionali. Dal 1992, quando sinistra Dc e Pci «abdicarono» di fronte ai pm militanti, la Spagna, con leader forti come Felipe Gonzalez e poi José Aznar, ha assunto parte della nostra centralità. Anche contro D’Alema ha contato il veto di José Zapatero. Gli italiani a Bruxelles hanno svolto incarichi, anche con successo, ma spesso hanno dovuto dimostrare, al contrario dei colleghi, di non avere particolari rapporti con il loro Paese.
Il peso degli Stati-nazioni per una certa fase crescerà, perché per gli Stati Uniti è improbabile restaurare una leadership come quella esercitata dal 1945 in poi. Anche il processo di razionalizzazione dell’Unione, dopo la faticata approvazione delle nuove «regole», impiegherà tempo a consolidarsi. Vi sarà una fase in cui saranno costantemente misurati i rapporti di forza. Le mosse di Schulz vanno in questo senso: il ricatto degli inglesi che, per partecipare, vogliono più peso, le difficoltà dell’asse franco-tedesco che non vuole personaggi «forti» (i Blair, Aznar, D’Alema).
In questo contesto il governo Berlusconi, come spiega il Financial Times, con il massimo di lealtà verso la politica di sicurezza occidentale (come riconoscono Washington e Gerusalemme) ma anche con un’intensa iniziativa politico-commerciale sia in Medio Oriente sia in Russia, è giocatore insidioso, utile perché l’Europa ha bisogno di soggetti che allargano i suoi spazi, ma autonomo.
La reazione di Schulz manifesta sia lo sbandamento di una sinistra continentale che per sopravvivere cerca nemici come Berlusconi, sia le preoccupazioni più «tedesche» che socialiste su come mantenere un’egemonia al minimo di costi.
L’Italia, poi, però, al contrario delle altre nazioni dell’Unione, ha componenti «interne» pronte a sabotare l’interesse generale del Paese per perseguire interessi «particolari». Pesa anche un radicato cosmopolitismo tipico di settori delle nostre élite. Pure certe scelte politiche nel prendere le distanze dall’eurogruppo socialista o di indebolire l’unità degli italiani nell’eurogruppo popolare hanno questa logica: privilegiare il particolare sull’interesse nazionale. Così l’uso, spesso a sinistra ma recentemente anche a destra, di politici (e media) stranieri per pesare nel dibattito interno. Ma alla fine sono politici anche comportamenti economici di indifferenza agli interessi del Paese: come quelli di chi avrebbe venduto la nostra rete telefonica a Deutsche Telekom e oggi a Telefonica per continuare a comandare, quelli che barattavano appoggi personali con il prevalere dell’aeroporto Charles De Gaulle su Malpensa, quelli che hanno combinato pasticci sui destini di Bnl e Antonveneta, quelli che promettono coordinamento con le Ferrovie dello Stato e poi si vendono ai francesi. Il problema non è l’apertura e l’internazionalizzazione dell’Italia. Le scelte di multinazionalizzazione della Fiat di Sergio Marchionne sono perfette.

La questione è non aprire le «reti» in modo asimmetrico rispetto al resto del Continente. E se questo vale per le reti, figurarsi per la politica, come le disgrazie di D’Alema dovrebbero insegnare alla sinistra di casa nostra.

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