Se la tragedia dell’«Amica geniale» assomiglia a un fotoromanzo

Se la tragedia dell’«Amica geniale» assomiglia  a un fotoromanzo

I napoletani hanno un modo, che è solo loro, di riferirsi alle persone con nome e cognome, come se il prossimo fosse immancabilmente una «personalità». Marcello Solara, Donato Sarratore, Raffaella Cerullo... Di queste «personalità» ve ne sono, nell’ultimo romanzo di Elena Ferrante, una ventina, tutte domiciliate nel quartiere popolare - rigorosamente non bagnato dal mare - che costituisce lo scenario partenopeo de L’amica geniale (edizioni e/o, 327 pagg., 18 euro). Si tratta di figure saturnine, dominate da passioni fredde e violente. Con due eccezioni: la voce narrante, la mite «amica geniale» del titolo; e Lila, la protagonista, che tende al sulfureo. Nelle prime pagine del romanzo, ambientato negli anni del dopoguerra, la Ferrante disegna i tratti di una bambina demoniaca, affetta da una forma di vanitas vanitatum detta «smargiatura». Sciolta da ogni legge, capace di scagliare pezzetti di carta intrisi d’inchiostro in direzione della maestra senza battere ciglio, Lila vivrà una sorta di progressivo allontanamento da sé. Sarà, di volta in volta, un’indomita vergine Camilla; un’autodidatta che senza frequentare il ginnasio apprende alla perfezione il greco e il latino; una disegnatrice di moda; infine una pasionaria immersa nella storia recente della città, dall’occupazione nazista alla stagione demagogica del sindaco Lauro.
Nel dedicarsi a questi sviluppi un po’ desultori della protagonista, la Ferrante lascia riposare troppo a lungo la sua straordinaria capacità di scandagliare le passioni più abissali, di coglierne il nero nucleo materico, e si perde in una combinatoria orizzontale di relazioni, ambizioni, liti che rischia di evocare certi meccanismi del fotoromanzo. È come se il processo di normalizzazione di Lila, la sua metamorfosi da ragazzina disturbante a cinica social climber, spingesse la Ferrante a normalizzare anche la scrittura. Vero è, che spesso la pagina si riscuote, e proprio per censurare magistralmente tale deriva: «La bellezza che Lila aveva nella testa fin da piccola non ha trovato sbocco, e le è finita tutta in faccia, nel petto, nelle cosce e nel culo: posti dove passa presto ed è come se non ce l’avessi mai avuta».

È per l’appunto grazie a questi colpi di reni autoriali che la Ferrante rimane comunque una delle poche scrittrici italiane che si sfogliano con ammirazione, e senza sentirsi turlupinati. Ma attenzione al pericolo di scrivere romanzi «che si leggono come un romanzo».

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