Sentenza di colpevolezza per aver sprecato la gioventù

«No, nun so’ stata io!», grida la Tina al commissario Ciccio Ingravallo nell’ultima pagina del più grande romanzo italiano del Novecento, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda. Chi l’ha letto ricorderà sicuramente questa scena, quando il commissario, certo delle proprie conclusioni, si rivolge alla giovane con male parole. E lei, contro ogni evidenza, scaglia la propria splendida vitalità contro l’uccisa, «in un subito corruccio, in un cipiglio», come se l’uccisa, morendo, le avesse fatto l’ultimo, irreparabile torto.
La vita che si scaglia contro la morte. La vita che non si sa, che non si conosce, che non sa dire una sola parola di verità su se stessa, ma che ugualmente non può fare a meno di vivere, e di ripetere a voce alta la sua volontà di continuare a esistere.
Ventisei anni ad Amanda, venticinque a Raffaele. È la sentenza di questo estenuante processo, di questa vicenda che per una notte di crimine ha scatenato mesi e anni di giornalismo, da quello alto a quello trash, con commentatori, tabloid, centinaia di accrediti, e con tanto di borsini circa il gradimento del pubblico (quello anglosassone in testa), che ha le sue simpatie e le sue antipatie, ha già emesso le sue sentenze definitive e guarda alle indagini e poi al processo come si assiste a un serial tv in cui fosse possibile, mediante un televoto, determinare l’andamento delle puntate successive. Che la sentenza sia giusta o meno, due cose sono certe: la prima è che i due finiranno in galera. Magari saranno fuori molto prima della decorrenza dei termini, ma chi ha passato anche soltanto due ore in carcere, chi ha sentito quell’odiosa porta richiudersi dietro di sé sa quanto è brutto, quanto è disumano e quanto è difficile uscire di lì migliori di come si è entrati.
La seconda cosa certa è che l’omicidio - comunque si sia svolto, e chiunque sia stato il vero colpevole - non è stato premeditato, ed è difficile pronunciarsi anche sulla sua piena intenzionalità. Comunque sia andata, sarà ben difficile gettare una luce piena sulle intenzioni degli assassini. Una cosa che loro stessi, ormai, sono forse gli ultimi a poter fare.
Quando studiavo filosofia mi sono imbattuto in molti autori che, per definire l’uomo, usavano la parola «progettualità». L’uomo si differenzia dagli animali - dicevano - perché progetta la propria esistenza, passo dopo passo. Il cane non progetta la propria caninità, se la ritrova addosso: l’uomo, viceversa, è l’autore della propria umanità.
Tanti fatti tragici e assurdi, passati sotto i nostri occhi con una sfacciataggine e una ripetitività sconcertanti, mi hanno insegnato a dubitare di questa affrettata investitura nobiliare. Dov’è tutta questa progettualità? Dovremmo essere circondati da progetti, essere noi stessi nient’altro che un insieme di progetti, invece le cose non stanno affatto così.
Un pensiero (o se preferite un non-pensiero) totalmente preterintenzionale si è affermato negli ultimi trenta, quarant'anni, sostenuto da intellettuali, psicologi, educatori. Le cose si fanno perché si fanno, non esistono scopi o progetti. Perché si va a una festa? Perché ci si va. Perché si assumono stupefacenti? Per farlo. Perché ci si spoglia? Per spogliarsi. E così via. Una volta entrati in questo tunnel è difficile uscirne. La catena degli eventi non si ferma, le cose si fanno perché vengono in mente, e una volta venute in mente non ci si può sottrarre dal farle: pensare sarebbe un atto di viltà, tirarsi indietro non sarebbe da uomini, si rischierebbe di perdere tutto.
C’è poi una procedura bizzarra (ne parlava, mi sembra, De Cataldo, tempo fa) che sembra favorire questo andazzo: quella per cui anche se vieni scoperto mentre sgozzi la tua vittima - esagero per semplificare - puoi sempre e comunque negare, dichiararti innocente, contro ogni ragione ed evidenza, ed è spesso questo ciò che gli avvocati dicono di fare ai loro assistiti, invitandoli implicitamente a ripetere ancora una volta la stessa recita assurda che li ha portati a commettere azioni folli.
La banalità del male, la sua meccanicità, la sua scontatezza si nutrono di teorie in sé dignitose, di pensieri in sé elevati, di libri interessanti. Non bisogna dimenticarlo.
Penso spesso a quei gesti sfrenati, che hanno portato alla morte di un essere umano, e alle persone che li hanno compiuti. Sono ragazzi, persone giovani e immature, come lo eravamo tu e io, non delinquenti nati (che non esistono). Penso alla loro vitalità male espressa, come lo è quella della Tina di Gadda, che di fronte all’evidenza deve ancora recriminare. E capisco lo sgomento del commissario Ingravallo, la sua titubanza finale.
Andare oltre, superare i limiti, sfidare le convenzioni, le leggi e perfino Dio appartiene infatti alla natura umana. Tentare i limiti appartiene al nostro sangue, alla legge del desiderio. Però ci vuole l’uomo, affinché tutto questo diventi una domanda, «perché?», e se l’uomo non c’è è tutta acqua che scorre e si perde. Ora, io non so se la sentenza sia stata giusta o meno.

Ma se anche Amanda e Raffaele dovessero essere scarcerati domani, resta in me e in tanti come me l’amarezza per tutta questa gioventù sprecata, per tutta questa buona attitudine finita nell’imbuto del vizio e del crimine, per tutta questa bella vitalità finita per sempre in una vita da scimmie, ripetitiva, senza progetti né orizzonte, sempre brutalmente uguale a se stessa, senza l’ombra di una vera domanda.

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