Sequestrato un diplomatico iraniano a Bagdad

Il governo e l’Agip accusati di non fare nulla per liberarli. L’Eni: «L’impegno è massimo»

Un nuovo rapimento. Un nuovo giallo. Un nuovo capitolo, forse, della guerra segreta giocata sullo scacchiere iracheno da Stati Uniti e Iran. La nuova spy story prende il via domenica sera a Bagdad nel centralissimo quartiere di Karradi. Davanti alla Bank Melli attende un codazzo di auto con targa diplomatica e insegne della Repubblica islamica. Jalal Sharafi, secondo segretario dell’ambasciata iraniana, è dentro da un quarto d’ora. Solite pratiche, solito ritiro di denaro in contante. Ma ad aspettarlo non c’è solo la scorta. Una Bmw con i vetri oscurati sosta all’incrocio retrostante. Due vie più in là, quattro fuoristrada attendono il via libera. Dietro i finestrini s’intravedono armi e divise chiazzate.
Jalal Sharafi s’affaccia dall’entrata della banca. La scorta ha i motori accesi. Spalanca la porta davanti all’ex segretario. Sharafi non fa in tempo a salire. Un fuoristrada si piazza davanti al convoglio e un gruppetto d’armati si precipita sparando sul secondo segretario. Altri aprono il fuoco contro la scorta. I testimoni non capiscono nulla. Vedono Sharafi in mezzo a un nugolo di uniformi, lo vedono urlare, dimenarsi, venir trascinato via. Tutti però riconoscono le divise. Non divise qualunque, ma quelle del 36° battaglione, la più efficiente unità dell’ esercito iracheno. L’unica chiamata a operare al fianco delle forze speciali statunitensi. L’unica utilizzata dagli americani nel corso di missioni particolarmente delicate. Ma non tutto fila liscio. Mentre la scorta iraniana ingaggia i rapitori, sopraggiungono diverse pattuglie della polizia irachena. Adesso gli attaccanti sono in difficoltà. Devono dividersi. Un gruppetto fugge con il console. L’altro li copre sparando su guardie del corpo iraniane e polizia.
Non appena la macchina con l’ostaggio si dilegua nel traffico i sei uomini in divisa rimasti a far da retroguardia si arrendono. Sanno di poterla far franca. La sorpresa arriva mentre i sei attendono di venir interrogati alla centrale di polizia di Karradi. Un convoglio di mezzi della sicurezza entra nel piazzale, un ufficiale esibisce l’ordine che impone l’immediato trasferimento dei sei catturati al quartier generale. Da quel momento nessuno li vede più. Al quartier generale tutti negano di aver firmato l’ordine. Gli iraniani tacciono per 24 ore poi scatenano la bufera. Il ministero degli Esteri di Teheran convoca l’ambasciatore iracheno e quello svizzero a cui spetta per delega la cura degli interessi Usa. Il portavoce Mohammad Alì Hosseini accusa gli americani di essere i mandanti del rapimento e di aver utilizzato per eseguirlo un’unità del ministero della Difesa iracheno abituata a lavorare per loro conto.
Il governo iracheno si limita a confermare il rapimento, ma tutti nella capitale irachena sono pronti a scommettere su una ritorsione americana per l’attacco di Karbala dove, a fine gennaio, un gruppo d’insorti s’infiltrò in un comando super fortificato uccidendo cinque militari americani. Per quell’incursione Washington sospettò un coinvolgimento iraniano.
Per il sequestro di Jalal Sharafi la rappresentanza diplomatica iraniana a Bagdad si dice sicura delle responsabilità americane. «È un atto terroristico commesso su ordine di Bush per inasprire il confronto con l’Iran», dichiara l’ambasciatore Kazemi Qomi. Il diplomatico allude alle disposizioni della Casa Bianca che autorizzano qualsiasi operazione, anche letale, contro gli esponenti della Repubblica islamica sospettati di destabilizzare la situazione irachena. In seguito a quell’ordine gli americani hanno catturato, un mese fa, cinque funzionari del consolato iraniano di Kirkuk accusandoli di lavorare per fomentare disordini e attività insurrezionali.

Ma Washington si guarda bene dall’ammettere qualsiasi coinvolgimento. «Non siamo al corrente - ha detto il tenente colonnello Christopher Garver, portavoce dell’esercito a Bagdad - di alcuna missione che ricordi anche lontanamente quell’incidente».

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