Serata difficile: Wagner si vendica dei volti noti in cerca di mondanità

Acuti e sirene. Lustrini e fumogeni. Scollature e petardi. Note possenti e mazzate pesanti. La Scala sale sulla macchina del tempo e riparte vertiginosamente all’indietro, destinazione quarant’anni fa. Come allora, la Prima ridiventa il grande protestificio nazionale, la madre di tutte le vetrine sociali, l’epicentro di tutti i malanni e di tutte le acidità nazionali.
Protestano gli studenti contro la Gelmini, e finisce con dieci agenti tumefatti. Protestano gli immigrati, perchè vogliono un’altra sanatoria per i clandestini. Protestano i lavoratori dei teatri contro i tagli alla cultura. Tutti questi, fuori. Dentro, aperta un’altra depandance del lussuoso protestificio. Il sovrintendente Lissner protesta sarcasticamente contro il ministro culturale Bondi, fermo a Roma per la Finanziaria: «Se non è venuto, avrà altro da fare». Tutti attorno, i bei nomi della Milano pensatrice esprimono la propria garbata e borghese protesta contro questo accanimento tremontiano contro la cultura, «la prima risorsa del nostro Paese» (la frase va molto, direi che è lo slogan vincitore dell’edizione 2010). E non è finita qui. Persino dentro la pregiata sala, non appena il presidente Napolitano e la sua amata Clio prendono posto nel palco presidenziale (sono dannatamente repubblicano, proprio non ce la faccio a chiamarlo reale), il direttore dell’orchestra aggiunge l’ultimo mattone al protestificio: «Esprimo la più profonda preoccupazione per il futuro della cultura in Italia e in Europa». Con gesto scenico molto studiato, legge quindi l’articolo 9 della Costituzione, in cui «la Repubblica si impegna a promuovere la cultura, la ricerca, il paesaggio, il patrimonio artistico» di questo benedetto Paese. Più che un mattone, una mattonata. Applauso caloroso, soprattutto di Napolitano. Segue inno di Mameli, come uno scacciapensieri generale per passare finalmente all’arte musicale.
La serata però sembra come segnata. Sta scritto che non possa essere lieve e spensierata. Il clima cupo e penitenziale, ispirato da un cielo grigissimo e dalle violenze di piazza, si percepisce anche a colpo d’occhio. Mai la Scala era apparsa così sguarnita e scarna: nessuna luce natalizia fuori, niente fiori dentro (solo una guarnizione di rose chiare al palco di Napolitano). A completare l’opera, l’opera: la Valchiria di Wagner. Bravissimo, Wagner. E chi lo discute. Ma cinque ore, tutte cantate in rigoroso tedesco, non sono una tarantella.
Con tutto il rispetto, quando arrivano a cinque ore, anche un gioioso pranzo di Natale e un prestigioso banchetto nuziale diventano tosti. In un certo senso, la Valchiria è la prova estrema e sublime. Indubbiamente è piacere ed estasi per il vero melomane, che dalla Scala non uscirebbe neanche dopo cinque giorni, stanato dalle teste di cuoio. Tra questi puristi, sicuramente, i Confalonieri e gli Squinzi, i Veronesi e i Padoa Schioppa, i Romiti e i Borrelli, vale a dire gli immancabili, che da decenni ogni volta si ritrovano qui con la curiosità dei tifosi organizzati alla prima di campionato.
Ma accanto a loro, bisogna registrarlo, i coraggiosi sono tantissimi. Più di altre annate. È il segno che le cinque ore in tedesco non fanno comunque da sfollagente. Alcuni nomi: il nostro direttore Feltri e Forattini, Cecchi Paone e la Marzotto, Assunta Almirante e Valeriona Marini, la Balivo e il presidente Rai Garimberti, nonché la politica locale (stranamente senza Formigoni). Il mondo della finanza, delle professioni, delle arti. Il governo con la Brambilla e Romani. C’è pure un tizio straniero che crede di fare colpo portandosi in giro una cresta verde in cima alla testa, davvero una simpatica testa di.
Impossibile sapere chi davvero gradisca e chi sommessamente soffra. Sullo spettacolo in sé, personalmente non ho le basi e i titoli per dire se sia riuscito o fallito. Non mi permetterei mai. Ad un certo punto, nelle fasi più difficili dell’opera, io ho persino temuto che un kamikaze, interpretando il più recondito sentimento comune, si alzasse improvvisamente per lanciare il memorabile grido di liberazione fantozziana: «Per me, la Valchiria è una boiata pazzesca!».
Ovviamente sono soltanto fantasmi e reminescenze della goliardia giovanile. In realtà gli applausi arrivano copiosi, alla fine. Ma per sapere davvero quale risultato raccolga questa Valchiria bisogna leggere i critici musicali, personaggi tra parentesi molto simpatici, perché se si esclude qualche inevitabile lacchè sono penne capaci di tirare legnate senza tanti problemi.
Da osservatore neutrale, io mi limito a segnalare che quest’opera monumentale ha un pregio: riesce a fare giustizia giusta.

Con le sue cinque ore in tedesco, è supplizio e castigo per curiosi e imbucati, quei presenzialisti che vengono alla Scala per mille motivi collaterali: vanità e narcisismo, convenienza e opportunismo, calcolo e pubbliche relazioni, contatto politico e mondanità. Su questa bella gente, la Valchiria si abbatte come un flagello biblico. La Valchiria la fa pagare cara a chi c’è solo perché bisogna esserci.

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