La sfida neozelandese. Riportare a casa i kiwi a un secolo dall'addio

Vittime dei predatori, i volatili sono spariti da Wellington. Che ora spende milioni per riaverli

La sfida neozelandese. Riportare a casa i kiwi a un secolo dall'addio

Tornerà a risuonare il canto del kiwi, una via di mezzo tra quello di un gabbiano e di un pulcino, nelle notti di Wellington? Il bizzarro uccello simbolo della Nuova Zelanda, e anche curiosamente della sua aeronautica (nonostante non voli), dal lungo becco e dalle piume che sembrano una pelliccia, da un secolo non si fa vedere nella capitale. Anche se è questa la sua casa da millenni, ben prima che arrivassero gli europei: è infatti specie antichissima.

I neozelandesi sono molto orgogliosi del loro uccello nazionale. Certo, se dovessimo giudicare una nazione dal suo animale simbolo potremmo dedurre che il mondo non rischierà di essere dominato dalla Nuova Zelanda. Ben diverso dalla bellicosa aquila americana, il kiwi infatti è un pacioso tenerone. Pure troppo. Perché nei secoli scorsi da dominatore dell'ambiente è passato a vittima, sterminato da animali predatori importati dai colonizzatori europei: furetti, opossum, donnole ma anche più comuni cani e gatti. Da milioni che erano, ne sono rimasti oggi appena 68mila. Un po' per orgoglio nazionale, un po' per attirare i turisti, un po' per spirito animalista una associazione locale ha lanciato il progetto «Capital Kiwi» con l'idea di riportare il volatile «a scorrazzare nel giardino di casa vostra».

Detto fatto? Non proprio. Per reintrodurre l'uccello dalle lunghe piume marroni - che la maggior parte dei neozelandesi ha visto solo allo zoo o in riserve naturali su un'area di 23mila ettari il territorio dovrà essere «bonificato», liberandolo da quei predatori che negli anni passati ne hanno fatto strage. Un lavoro lungo che richiederà almeno tre anni. E da realizzare tramite apposite trappole. La prima è stata posta questo mese e si pensa di arrivare a 4.400 per creare una zona sicura per il simpatico pennuto, che pesa da uno a quattro chili e può arrivare fino a 65 centimetri di lunghezza.

Il progetto prevede anche il coinvolgimento della popolazione di Wellington, circa 500mila abitanti. I «wellingtoniani» sono invitati a contribuire piazzando trappole in giardino, ma, dopo la reintroduzione, dovranno impegnarsi anche a tenere i propri cani in aree recintate e portarli al guinzaglio nelle zone in cui potrebbero incontrare esemplari di kiwi. Che, en passant, hanno anche un'altra simpatica caratteristica: è il maschio a prendersi la briga di covare le grosse uova. La sera poi dovranno guidare con attenzione per non rischiare di investirli, essendo loro animali notturni un po' come i nostri porcospini.

La serietà del progetto è fuori discussione. Sono già stati stanziati oltre 3,2 milioni di dollari neozelandesi (1,9 milioni di euro). Si inserisce infatti all'interno di un programma più ampio volto a preservare la biodiversità e le specie locali e a rendere il Paese predator free, libero da predatori. Le trappole elimineranno «umanamente», ovvero velocemente tramite gas e senza usare veleni, i pest, gli animali nocivi introdotti dagli inglesi intorno al 1880 per fermare la proliferazione di lepri e conigli (anch'essi portati qui dai britannici).

Gli organizzatori glissano su questo aspetto, cioè sul fatto che per salvare gli animali (autoctoni) ne andranno uccisi altri (di importazione, ancorché secolare).

Ermellini, donnole, opossum e furetti però da queste parti sono considerati alla stregua delle nostre pantegane e non meritano una lacrima d'addio. Perché si sono rivelati letali per i miti uccelli locali oltre a kiwi ci sono anche whio, tui, kaka e tieke portandoli sull'orlo dell'estinzione. Anche agli antipodi, insomma, vale l'antico detto mors tua vita mea.

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