Sfiducia al Senato, Prodi si dimette Consultazioni: si chiude martedì

Prodi lascia Palazzo Madama quando l’esito è già scontato: l'aula gli vota contro. Prima aveva arringato la sua ex coalizione: sono qui per coerenza. L'obiettivo: ottenere il reincarico, l'ultima carta del premier è un governicchio. Ma Napolitano lo gela: "Non contare su un reincarico". Il programma dei colloqui del presidente della Repubblica

Sfiducia al Senato, Prodi si dimette 
Consultazioni: si chiude martedì

Roma - Dal Quirinale al Quirinale, senza ritorno (si spera). L’ultima corsa del Ciclista in sella termina ufficialmente alle 20.45, con una poltrona vuota al comando. Il colore è rosso, e Romano Prodi da una ventina di minuti ha abbandonato l’aula di Palazzo Madama per la salita più difficile: al Colle per rassegnare le dimissioni.

Gli scranni del governo sono ora desolatamente occupati da Livia Turco (come assorta in preghiera) e Giovanna Melandri, che riesce a far salotto anche lì. Arriva Cesare Damiano, poi Paolo Ferrero. Ancora il tempo di una foto ricordo sui banchi governativi con il cellulare di una sottosegretaria, chissà se li rivedranno. Intanto i tappi di due bottiglie di spumante italiano piombano dal banco di Mimmo Gramazio sulle seggiole finalmente libere. La caduta del Romano aspirava al tratto eroico, da «guerriero» (così lo saluta Diliberto), ma ha avuto momenti grotteschi o solo patetici. E l’ultimo «no» arriva dal senatore Fisichella, a lungo intimorito dal gesto, quando il premier è già finalmente volato via.

La notte che precede la fine è di quelle che non si dimenticano. Il premier stava per cedere, raccontano i suoi, di fronte al tiro incrociato del Quirinale e del quartier generale del Pd che gli sconsigliavano l’inutile bagno di sangue interno alla coalizione. Scontrarsi in Senato, perché? Ma i numeri, già al mattino disperati, invece di acuire la crisi di coscienza del premier finivano invece per rinfrancarlo. Era un Prodi di nuovo battagliero quello che il presidente Napolitano si trovava di fronte poco dopo le 10 e mezzo. Cinquanta minuti di colloquio teso, nel quale il Professore insisteva allo spasimo con la sua tesi della «parlamentarizzazione della crisi». Unico punto in comune: «Non si può andare a votare con questa legge elettorale», tesi che per Prodi equivale alla possibilità di un reincarico e per Napolitano a salvare il dialogo. Il premier usciva dal Colle ancora più deciso a fare terra bruciata: «Un colloquio sereno e costruttivo, vado in Senato».

Così i fedelissimi vantavano rimonte impossibili, come cercando la «bella morte». Il fidatissimo Angelo Rovati ne spiegava la filosofia alla buvette: «Stiamo andando senza rete, a corpo libero. Noi dobbiamo distinguerci a ogni costo, dobbiamo mostrare al Paese di avere una logica diversa dagli altri. Noi siamo diversi. Si viene qui, si vota come da Costituzione, e succeda quel che deve succedere. Forse ce la facciamo, e rilanciamo il governo con una pattuglia di ministri ridotta, cambiando passo. Oppure non ce la facciamo: in questo caso Romano prende il treno e torna a casa. Amen. Un caso unico nella storia della Repubblica».

Ma tornerà davvero a casa, Prodi? L’attenzione spasmodica per le forme, apparentemente priva di logica politica, è troppo plateale per non alimentare sospetti. Il premier difficilmente potrà giocarsi la carta del reincarico mentre, in caso di elezioni, sarebbe pronto a candidarsi alla premiership in alternativa a Veltroni, sostenuto dalla sinistra più Di Pietro. Una vendicativa puntata d’azzardo che mira a tornare padrone di un Pd ormai «doroteo». Così fin dal mattino i collaboratori reagivano rabbiosamente agli articoli di giornali che rivelano trattative con offerta di nomine in cambio dei voti in Senato. «Le ricostruzioni sui ricatti sono fango per il Paese» dirà più tardi il premier che, dopo il colloquio con Napolitano, non rinuncia al programma e incontra investitori americani.

Il discorso a Palazzo Madama cerca invece di definire una «via maestra» alla crisi. Etica più che mai: rispetto assoluto dei principi della Costituzione e denuncia dell’«ingerenza dei partiti, un residuo del passato». Prodi chiede «un voto esplicito e motivato», perché «nessuno può sottrarsi alla responsabilità di indicare quale altro governo sia possibile...». Stesso tratto che cerca di marcare profonda diversità rispetto al Pd avrà la replica a fine dibattito. «Non sono venuto in Senato per testardaggine, ma per coerenza. Non si sfugge davanti al giudizio di chi rappresenta il popolo, perché il popolo ci guarda. Le crisi non si affrontano nei corridoi ma a viso aperto». Prodi attribuisce i demeriti del governo alla legge elettorale voluta dalla Cdl e si appella ai senatori, nonostante la «contrapposizione senza limiti» abbia dato al Senato un’«inaccettabile immagine di arena».

Non basterà, ma il premier ottiene proprio quello che cercava: un’uscita dalla porta principale che bruci i ponti del dialogo per le riforme e gli consenta di rientrare dalla finestra. La casa dei «filistei» Veltroni e D’Alema è avvisata: stavolta Romano non farà prigionieri.

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