Il sindacato è tornato padrone della scuola

Addio merito, autonomia e presidi manager. I sindacati riprendono il potere

Il sindacato è tornato padrone della scuola

«Una restaurazione, una vera restaurazione: siamo tornati indietro di 20 anni». Per inclinazione e abitudine il preside milanese è abituato a pesare le parole, ma questa volta sembra lasciarsi andare e la dichiarazione ha il suono dello sfogo. Il tema è il nuovo contratto della scuola, firmato un mese fa dai sindacati Cgil-Cisl-Uil del comparto scuola e dai funzionari dell'Aran, l'ufficio che rappresenta le pubbliche amministrazioni nelle trattative sindacali. La materia del contendere non sono certo i soldi finiti ai professori (tra gli 80 e i 110 euro di aumento con una indennità fino a 600 euro per gli arretrati). A contare di più è tutto il resto, le nuove (in realtà stravecchie) regole su merito, autonomia degli istituti, potere dei sindacati. Un altro preside, sul sito dell'Anp, la principale associazione dei dirigenti scolastici, accusa il colpo: «fino ad ora abbiamo dovuto difenderci dalle infinite molestie burocratiche, con il nuovo contratto dovremo difenderci anche dalle molestie sindacali».

Non bisogna pensare che a essere scontenti siano, magari per ragioni corporative, solo i capi-istituto. Si dichiara «frustrato» anche Attilio Oliva, imprenditore, ex amministratore delegato della Luiss, oggi presidente dell'Associazione TreeLLLe, che studia il mondo dell'educazione in Italia. «Mi batto per una scuola moderna da più di 20 anni, oggi sono sconfortato. Nell'intesa appena firmata trovo espressioni allucinanti, è una marcia indietro spaventosa».

Per unanime riconoscimento la protagonista indiscussa di cotanto capolavoro è la ministra dai capelli rossi: Valeria Fedeli. Arrivata al Ministero della Pubblica Istruzione dopo una lunga carriera sindacale, si è assunta il compito di riannodare i rapporti tra sinistra di governo e rappresentanze del personale scolastico. A interrompere il tradizionale collateralismo era stata la riforma della «Buona scuola» del governo Renzi. Ai sindacati il provvedimento aveva causato una specie di shock: era bastata l'introduzione di un fondo per premiare, con un sia pure modesto bonus, gli insegnanti più meritevoli per provocare lo stesso anatema che aveva travolto alla fine degli Novanta del secolo scorso il ministro Luigi Berlinguer. Allora Berlinguer aveva proposto di impiegare 1.200 miliardi delle vecchie lire per premiare gli insegnanti migliori. Un professore su cinque avrebbe ricevuto 6 milioni in più l'anno. L'obiettivo era dichiarato: «Va introdotto il concetto di merito: chi vale di più deve avere di più». La frase, in altri contesti auto-evidente, in Italia suona ancora come una bestemmia e per questo il malcapitato era stato fatto a pezzi. Dalla sinistra, ma anche da una non irrilevante parte della destra, a dimostrazione che da noi le questioni di schieramento hanno sempre la meglio sulla sostanza delle cose. La riforma era stata subito sepolta, l'autore aveva dovuto sgomberare in fretta la poltrona di Viale Trastevere.

IL NO MERITO DELLA FEDELI

Questa volta a metterci una pezza e a frenare ogni tentazione meritocratica è stata la Fedeli. Nel contratto firmato in febbraio i 200 milioni del fondo istituito dalla legge per la Buona Scuola, quelli stanziati per premiare i docenti meritevoli, vengono, almeno parzialmente, sequestrati. Ottanta milioni quest'anno (dall'anno prossimo dovrebbero essere 40) saranno utilizzati per finanziare gli aumenti di stipendio distribuiti a pioggia. La somma per i bonus, già considerata troppo bassa per essere efficace, viene dunque ulteriormente ridotta. Ma non basta: a cambiare sono anche i criteri di assegnazione. Il problema dei parametri da utilizzare per scegliere i docenti più bravi è oggettivamente delicato e in tutto il mondo causa discussioni e polemiche. Per risolverlo la legge 107 del 2015 ha previsto l'istituzione di un Comitato di valutazione a cui partecipano un certo numero di docenti, un rappresentante dei genitori e uno degli studenti. È affidata al comitato l'elaborazione dei criteri di assegnazione, e su questa griglia si inserisce la decisione del preside a cui spetta la scelta, motivata, dei nomi da premiare. La Fedeli, d'accordo con i sindacati, ha introdotto un'innovazione fondamentale: una tabella ministeriale con l'indicazione dei criteri di scelta. E su tutta la procedura hanno allungato le mani Cgil, Cisl e Uil. Perchè una delle altre importanti novità del contratto siglato con i sindacati confederali è il ritorno in cattedra delle rappresentanze dei lavoratori.

SINDACALESE DI RITORNO

Negli ultimi anni i presidi hanno dovuto confrontarsi con le rappresentanze di docenti e non docenti fondamentalmente su questioni di informazione preventiva e soprattutto sulla destinazione del cosiddetto Fondo di istituto, la somma (di solito non particolarmente rilevante) a disposizione del preside per finanziare straordinari e altre piccole spese. Ora la materia si allarga notevolmente: l'articolo 22 dell'intesa appena firmata elenca ben nove materie di contrattazione a livello d'istituto. Tra di esse «i criteri generali per la determinazione dei compensi finalizzati alla valorizzazione del personale», compresi, dice esplicitamente l'accordo, quelli della Buona scuola. Come se non bastasse, per le materie non oggetto di contrattazione, viene introdotto l'istituto del «confronto», un «dialogo approfondito» che, come viene specificato in sindacalese, deve «consentire ai soggetti sindacali di esprimere valutazioni esaustive e di partecipare costruttivamente alla definizione delle misure che l'amministrazione intende adottare». «Per carità, parlarsi ed ascoltare è sempre utile», commenta Maurizio Franzò, vicepresidente nazionale dell'Anp, l'associazione dei presidi. «Ma queste sembrano norme che aumentano farraginosità, complicazioni e rischi di malintesi all'interno della scuola».

Ad accompagnare il tramonto del merito, ottenuto grazie alla riduzione dei bonus e alla loro sindacalizzazione, è il dibattito sull'autonomia delle singole scuole e sul ruolo dei presidi. Ormai da più di un decennio la parola d'ordine era quella di rafforzare i capi-istituto, aumentando le loro attribuzioni, con un ruolo simil-manageriale costruito sul modello di altri Paesi europei. L'obiettivo era aumentare gli spazi di gestione autonoma delle scuole, e rendere il dirigente scolastico davvero responsabile dei risultati ottenuti. Il processo sembra però in stallo e, anzi, l'ultimo contratto sembra perfettamente inserirsi in una fase di contro-riforma.

PRESIDI RIMESSI KO

Nella legge del 2015, la già citata Buona scuola, aveva fatto capolino il miraggio della «chiamata diretta» o «chiamata per competenza»: il preside poteva scegliere il «team» con cui lavorare chiamando, entro certi limiti, i professori che sulla base del curriculum gli sembravano più adatti per migliorare la cosiddetta «offerta formativa» del suo istituto. Enunciato il principio si è poi provveduto a legare le mani ai presidi ingabbiandoli nella tradizionale selva di graduatorie che sono da sempre caratteristica della scuola italiana. E la famosa libertà di scelta non vale nemmeno per i supplenti, visto che nonostante l'abbondante piano di stabilizzazioni decise nel 2015 il precariato rimane rilevante, e sempre alle graduatorie bisogna fare riferimento. Non è un caso che dopo le più di 130mila assunzioni dal 2015 si sia già avviata una nuova «stabilizzazione» che potrebbe riguardare altri 100mila insegnanti precari.

Anche la nuova infornata non abbasserà più di tanto l'età media dei docenti italiani. Nella penisola il professore tipo ha quasi 52 anni (vedi anche i grafici in basso). In nessun altro Paese Europeo ci sono in cattedra tanti capelli grigi: solo un docente su 100 ha meno di 30 anni, contro i 7 «ragazzini» su 100 insegnanti in Francia, Germania e Finlandia, i 14 della giovanilistica Olanda. Non è, purtroppo, l'unico record che sarebbe meglio non avere. Un caso noto è quello degli stipendi: un professore italiano guadagna il 67% (se di scuola media inferiore) o il 73% (superiori) della media dei laureati in materie equivalenti della Penisola.

Per riportare i compensi dei professori su livelli europei, hanno calcolato gli economisti del sito Lavoce.info, ci vorrebbero due miliardi di euro l'anno. Distribuirli in base ai meriti e non a pioggia servirebbe a valorizzare competenze e professionalità.

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