Sinistra garantista solo se le conviene

Tutte le giravolte nel rapporto con i giudici, da intoccabili a imputati: durante Mani Pulite era idillio, poi gli scricchiolii sulla vicenda Unipol. Fino alla rivolta dopo il caso Pescara. Del Turco: "Il Pd contro le toghe? Macché, contro di me silenzio vergognoso"

Sinistra garantista solo se le conviene

Roma Quando il mondo non girava alla rovescia, la sinistra era garantista, il Pci nutriva sacro terrore dei giudici, Di Pietro era operaio in Germania, Travaglio sognava il giornalismo di destra.
Tangentopoli era coperta da una spessa coltre di nebbia e, come ha ricordato Massimo Cacciari, fu il terrorismo brigatista a spingere Botteghe Oscure in braccio ai giudici. I comunisti, parte integrante del sistema, difesero a spada tratta le leggi speciali. Poi arrivò la «questione morale», che per Enrico Berlinguer non significava cedere sovranità ai magistrati, bensì contenere politicamente l’avanzata del Psi di Craxi nel suo punto debole, conservando l’egemonia sulla sinistra. «Craxi è un pericolo per il Paese, dobbiamo fermarlo», diceva un terrorizzato Berlinguer al cugino Cossiga, all’epoca presidente del Senato. L’influenza di Antonio Tatò e del cattocomunismo di Franco Rodano s’era fusa con la sobrietà berlingueriana. La «diversità» comunista, ora, si poteva coniugare anche in Procura, facendo perno su due semplici enunciati: «I socialisti sono più ladri di tutti», «Se un comunista ruba, ruba per giusta Causa».
È necessaria questa piccola digressione storica, per arrivare a capire i brindisi di Mani pulite. Non appena il Pci-Pds fu certo che le inchieste l’avrebbero solo lambito, l’avventura di Borrelli, Di Pietro & C. divenne la classica scorciatoia per prendere il Palazzo d’Inverno. «Sostenete la magistratura» la parola d’ordine diramata dal centro fino alla più piccola delle sezioni.
E Achille Occhetto, dopo essersela vista brutta per l’inchiesta che seguì i soldi di Gardini fino alle scale d’ingresso del Bottegone, poté finalmente sognare la «gioiosa macchina da guerra». Sui giudici, il buon Akel ha però sempre conservato timori antichi. Non amando le toghe, ha definito Mani pulite come «una fase di rottura necessaria». Appunto considerandola una sottospecie rivoluzionaria, e non semplice malaffare.
Da questo fraintendimento colpevole i suoi successori, altra generazione, si sono tenuti alla larga. Di Walter Veltroni si conosce la rapidità dello struzzo: era capo della propaganda comunista, ma anche «mai stato comunista»; mai distinto per furori giustizialisti, ma anche fedele alleato di Di Pietro. Massimo D’Alema, uomo di mondo, ha sempre preferito il motto della prudenza: dalle inchieste ci salvi iddio che dalla magistratura mi guardo io. E ha sempre cercato di riaffermare la supremazia della politica sul potere giudiziario.
Re del camaleontismo, l’ex magistrato Luciano Violante, arrivato nel partito a cavallo di Tangentopoli e sceso non appena conquistato lo scranno di presidente della Camera. Con qualche ricaduta: a chi gli chiedeva di riforma della giustizia, rispose con sussiegosa ironia ancora nel ’97: «La Francia sta cercando di copiare il nostro sistema giudiziario». Va quindi precisato che si tratta della stessa persona che ieri ha dichiarato: «Dobbiamo toccare il santuario dei giudici, il Pd non può pensare di realizzare le riforme lasciando fuori la magistratura. L’uso politico dei processi allontana dalle soluzioni». Violante in sedicesimo è Massimo Brutti, commissario d’Abruzzo, che non teme di chiedere «più scrupolo» ai magistrati che indagano sul Pd.
Che l’idillio tra post-comunisti e magistrati non potesse continuare all’infinito s’era già capito all’epoca dell’affare Unipol: quando le intercettazioni misero a nudo la superba uniformità della «diversità». D’Alema, Fassino e Consorte: l’aggravante non stava nel tentativo di giocare alla grande finanza, quanto nell’essere maldestri. Come quando D’Alema premier si giustificò sostenendo che lui giocava in borsa, «ma ci ho perso un bel po’ di quattrini».
Diversi perché un po’ tonti, allora, e oggi tramortiti dalla grandinata di inchieste su amministratori raccogliticci, cacicchi e l’insana voglia di «fare come tutti». Ma almeno, è finita la presunzione di «moralità» differente per statuto.

Si è gettato a raccoglierla il dipietrista Leoluca Orlando, quello del «sospetto anticamera della verità», che ieri ha annunciato: «Presto si scoprirà che questo è il vero Pd». Voglia il cielo che non si riferisca al prossimo sorpasso elettorale.

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