Sofonisba e le altre, se l’arte è donna

Dalle «rivoluzionarie» sorelle Anguissola alla Biennale 2005, lo «specifico femminile» nella pittura moderna

«Negli anni Settanta, quando all’università mi occupavo di Sofonisba Anguissola, i miei colleghi d’istituto mi prendevano in giro, mi dicevano: ti occupi delle “sofonisbe”. Così Gadda, sicuramente dal nome della pittrice, definiva malcerti e insidiosi esseri che per lo scrittore lombardo incarnavano simbolicamente l’intero universo femminile», dice Flavio Caroli introducendo la coversazione sulle pittrici dell’epoca moderna.
Ma lei non smise di occuparsi di Sofonisba. «Assolutamente no. Anzi mi dedicai a scoprire l’attività anche delle altre sorelle Anguissola: Lucia, Europa, Anna Maria. C’era anche un’altra sorella, Minerva, ma si occupava di letteratura. Per non parlare del fratello Asdrubale, un flaneur di provincia che vivrà tutta la vita alle spalle della sorella Sofonisba». Le sorelle Anguissola sono le prime pittrici importanti dell’era moderna? «Senza dubbio. E forse quella che aveva più talento era Lucia, che però morì giovanissima. Il ritratto che ha fatto della sorella Europa dà la dimensione della qualità da “poetessa della debolezza” di Lucia. Pur con le sue poche opere si colloca nel novero dei grandi ritrattisti dei vinti: da Lotto a Savoldo a Romanino a un’altra grande pittrice, Fede Galizia».
Sofonisba e le altre, artisti tout court o artiste al femminile? «Artiste di grandi qualità, di valore universale, ma espressione di quello che si chiama con una parola un po’ abusata “specifico femminile”. Naturalmente lo “specifico” che si può cogliere nelle loro opere è questione di sensibilità, di temi famigliari ma anche di profondità più che di caratteristiche perfettamente individuabili. Il peso di questo specifico è dimostrato anche dalle qualità di un’altra pittrice lombarda: Fede Galizia. Anche lei è artista dotata di una sensibilità particolare che non è sbagliato definire femminile. È uno dei grandi pittori di nature morte. In una chiave molto moderna, basta pensare alla pittura di Morandi, la Galizia delega gli oggetti a rappresentare la sua sensibilità: certo attraverso una mediazione formale rigorosissima con virtuosismi nell’uso della luce. Siamo in presenza di una artista di grandissima qualità. Milanese, figlia di un miniatore trentino, la sua pittura è tenue, delicata, dunque femminile. Le nature morte diventano soggetti di quadri solo alla fine del Cinquecento, prima se ne stanno in secondo piano nel dipinto. Un po’ come i “paesaggi” che passano da comprimari a protagonisti. A un certo punto il soggetto tradizionale del dipinto, la figura umana, scompare. E la scena viene occupata da campi, foreste, cesti di frutta. C’è un quadro di Vincenzo Campi del 1585 dove il processo sta per completarsi: la scena è tutta occupata da cesti di frutta e verdure di diverso genere, con la “venditrice”, che dà il nome al quadro, tenuta rigorosamente in secondo piano. Ma presente. Comunque Galizia è tra i primi a dipingere nature morte, e non è estraneo a questa scelta il peso di quello che abbiamo chiamato “lo specifico femminile”. Prima di lei c’è un quadro di Ambrogio Figino del 1593-94, c’è il magnifico Fiscella di Caravaggio del 1598-99. C’è una natura morta dello spagnolo Sanchez Cotán del 1602 e poi c’è il quadro della Galizia: il che conferma la qualità della pittrice».
Sofonisba era anche molto famosa: non per nulla è citata nelle Vite di Giorgio Vasari. «Sì. Era assai famosa e naturalmente a questo fine essere presente nelle pagine delle Vite era essenziale. Era quel testo di biografie di pittori che faceva la fama o meno di un artista. E non era facile riuscire a esservi presenti: soprattutto per un lombardo, Vasari chiamava così tutti quelli che stavano oltre gli Appennini, da Bologna in su. O si era toscani, dunque bravi, o lombardi dunque mediocri. Ma il suo artista di riferimento, il grande Michelangelo Buonarroti, gli aveva detto che Sofonisba aveva talento. E lo storico dell’arte se n’era andato fino a Cremona. Di quei tempi una faticaccia. Era stato il padre dell’Anguissola a scrivere al Michelangelo, il Papa dell’arte in quella epoca, e a mandargli i disegni della figlia. Tra quei disegni c’era anche Il fanciullo morso da un granchio nel quale la giovanissima artista cremonese, aveva sui vent’anni quando lo schizza, coglie l’espressione del dolore infantile con un’invenzione della descrizione dell’evento che piacque particolarmente al grande artista fiorentino. E quella smorfietta di dolore colta da Sofonisba la ritroviamo poi nel Fanciullo morso da un ramarro di Caravaggio. Però la storia dei rapporti tra le due opere è lunga da raccontare. Basta sottolineare come l’arte di Sofonisba fosse assai matura e lei avesse avuto fior fiore di maestri, grandi artisti che operavano a Cremona, da Bernardino Gatti ad Antonio Campi. La sua era l’attività di una giovane d’ambiente nobiliare con le caratteristiche di stile di vita che questo implicava, ma dotata di mano, visione e gusto sicuri. Dopo la fama che le diede Vasari, Sofonisba divenne una star: tanti nobili milanesi chiedevano di essere ritratti da lei. Finché Filippo II, re di Spagna, le chiese di trasferirsi a Madrid dove divenne dama di compagnia della regina e continuò a dipingere. Poi la regina morì, lei si sposò con un nobile che viveva a Palermo, poi con un nobile capitano genovese. Visse fino a novant’anni. Fece a tempo a conoscere Van Dick che la ritrasse e scrisse di avere imparato più da questa vecchia signora mezza cieca che da tanti artisti italiani. Fu lei a insegnargli a calare la luce dall’alto. Così si nascondevano le rughe. Un altro esempio di “specifico”».
Anguissola, Galizia, ma il Seicento è anche il secolo di un’altra grande artista, Artemisia Gentileschi. «Senza dubbio una pittorona, dal segno forte, dall’assoluta padronanza del mestiere. Era figlia di un grande pittore. Ma in lei quello “specifico” di cui si diceva, quella sensibilità, quell’attenzione all’ambiente famigliare che faceva sì che le sorelle Anguissola si dipingessero l’una con l’altra, con quei loro profili di pallide giovanette padane che rimbalzavano da quadro in quadro come in specchi borgesiani, o quella malinconia di tratto della Galizia, non c’è. Artemisia donna forte, pittore tra i pittori, con più di uno dei quali ha solidi rapporti carnali ed è anche vittima di un discusso stupro (leggendo gli atti del processo le sue accuse mi sono parse poco fondate), la Gentileschi dipinge benissimo ma con lo stile di un artista tradizionale, cioè maschile. Anche se poi è tipico di una forte sensibilità femminile imbarcarsi in un viaggio di mesi per andare ad assistere il padre morente a Londra».
Dunque le prime grandi pittrici moderne sono italiane. «In realtà per una fantastica coincidenza della storia del mondo. Nel 500 a.C. vissero in diverse parti del mondo contemporaneamente Socrate, Budda, Confucio e Zoroastro come racconta Gore Vidal nel suo romanzo Creazione. Per una di queste straordinarie coincidenze proprio nel periodo in cui Sofonisba acquisisce la sua fama, tra la metà del Cinquecento e il Seicento, in Cina si afferma un’artista di grande finezza (i disegni dei suoi fiori sono fantastici): Ma Shuzen. Una cortigiana. Firmava i suoi quadri con il più allusivo dei fiori: un’orchidea. E nelle sue opere si leggono quei tratti di gentilezza e attenzione alle sensibilità, spesso traslata dalla persona all’oggetto, che segnano l’opera delle sorelle Anguissola».
E la storia va avanti. «Sì, nel Settecento vi sono alcune grandi artiste. La veneziana Rosalba Carriera, una testimone gentile della vanità dell’epoca (in particolare di quella della sua città). Angelica Kaufman, nata a Coira in Svizzera e grande frequentatrice di salotti europei illuministi prerivoluzionari. Elizabeth Vigée Le Brun, parigina che invece s’imbatte nella rivoluzione dell’89 e se ne scappa a Firenze. Sono tutte ritrattiste formidabili perché la sensibilità e la psicologia femminile le aiutano a comprendere l’anima dei soggetti che dipingono meglio di tanti pittori maschi. Nel Settecento anche in Cina crescono due altre grandi artiste: Luo Ping, che in certi suoi quadri surreali dipinge come il Goya vecchio. E Quan, che immerge i suoi fiori e le sue farfalle in spazi liquidi che ricordano Miró. Va ricordato che nel frattempo nell’Impero celeste era entrato alla grande l’Occidente. Il più grande pittore cinese del Seicento è un milanese, Castiglioni».
E poi? «E poi c’è una impressionista dotata come Mary Cassat nell’Ottocento. E dopo arrivano le avanguardie. Avanguardia significa prima linea. È una pittura di guerra, dunque una pittura di uomini anche quella di donne di grande valore come la russa Goncarova, la francese Sonia Delaunay o la tedesca Paula Modersohn-Becker. Certo una pittrice militante, assai attiva anche con le pistole non solo con i pennelli come Frida Kahlo è anche un’artista molto attenta al corpo dolorante delle donne, un’artista molto femminile. Pesa in questo caso l’ambiente messicano che segna i comportamenti femminili molto di più dell’Europa novecentesca nella stagione delle avanguardie».
Oggi, con l’attenzione al femminismo, con un’arte addirittura di lotta sui temi della donna, con una Biennale di Venezia del 2005 che, curata da due donne spagnole, per ricordare «lo specifico femminile» ha proposto persino un lampadario composto di tampax, si può parlare di un ritorno alle sensibilità delle «sofonisbe»? «Ci sono artiste di grande valore. Una grande vecchia come Louise Bourgeois, per esempio. O la bravissima Marina Abramovich che è in mostra adesso all’Hangar Bicocca a Milano. L’artista di origine serba è famosa per le sue performance che esegue spesso in prima persona, completamente nuda. Me la ricordo a Kassel che dava certi colpi, delle vere e proprie panciate ad alcune strutture che le scorrevano di fronte. Colpi così violenti che il suo corpo si riempiva di lividi. È una donna colta, appassionata, intelligente, le sue performance sono di grande interesse, visivo e culturale.

Però, anche se molto spesso i temi delle sue rappresentazioni artistiche sono femminili, la sua gestualità appare violenta, secondo quella logica delle avanguardie di cui si è detto, o almeno non su quella linea di quello specifico femminile (sensibilità, attenzione alla famiglia, profondità psicologica) che ho cercato di inquadrare per le artiste del passato. Ma adesso si tratta di fare i conti con la nostra dura contemporaneità».
(4.Continua)

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