Centoquarantadue milioni di copie nel mondo, 34 nel nostro Paese. Oltre cinquecento titoli, pubblicati in 49 lingue. I suoi fan sono soprattutto bambini, ma non solo. Il bestsellerista d'Italia è una donna: Elisabetta Dami, milanese, figlia d'arte editoriale (suo padre Piero è stato il fondatore della Dami), quasi sessant'anni sfoggiati con orgoglio, eleganza e un sorriso che ricorda molto il suo topo, Geronimo Stilton, il roditore-giornalista-avventuriero dai buoni sentimenti e dal successo straordinario (lei e lui direbbero stratopico). Mentre parla è circondata dalle sue creature - «i miei figli» - che riempiono, affiancati sugli scaffali, una stanza intera. Oltre ai libri di Geronimo Stilton, pubblicati da Piemme fin dall'anno 2000, nel salotto della sua casa milanese, fra un juke box, un flipper e un calciobalilla, tutti autenticamente vintage, anche testimonianze di una vita avventurosa - non del topo, ma della sua «mamma» Elisabetta. Un abbraccio coi nativi americani che l'hanno «adottata» («un onore riservato a pochi bianchi», a lei è toccato addirittura da due tribù), la targa con il suo nome Cherokee, «Usti waya» («piccolo lupo»), la foto con il serpente intorno al collo, scattata in Perù, la fotocopia di un «Gratta e vinci» da diecimila euro («Sono fortunata, sì. Li ho dati tutti in beneficenza»), l'attestato della scalata in cima al Kilimangiaro nel 1998, le medaglie delle maratone. A New York ha appena partecipato alla terza («camminando, con due amici») e ha affrontato anche quella del Sahara. «Centoventi chilometri in quattro giorni e mezzo. Mezzogiorno nel deserto è come te lo aspetti: a un certo punto ho iniziato ad andare a zig zag, avevo un colpo di calore. Mancavano otto chilometri al punto di controllo, così mi hanno versato l'acqua in testa, fino a che siamo arrivati. E poi ho proseguito fino alla fine. Il maratoneta, anche piano, arriva in fondo. Io non ho un fisico straordinario, sono una donna normalissima».
Normalissima, insomma...
«Ho mantenuto l'entusiasmo e la curiosità dei bambini. In tutto quello che faccio metto il cuore. E questo è anche il segreto di Geronimo: in ogni libro c'è il cuore».
Sono appena usciti, come sempre per Piemme, Il grande segreto, una nuova avventura del Regno della fantasia - una collana da 3,3 milioni di copie - e poi La vera storia di Geronimo Stilton. Il suo topo ha addirittura una biografia?
«Sì, perché viene percepito dai bambini per ciò che è: lui esiste veramente. Come Babbo Natale, li fa sognare. È vivo, perché è vivo nella loro fantasia. E si capisce perché Geronimo è vivo, e così amato, da come è nato».
Come?
«Negli anni Ottanta scoprii che non avrei avuto figli. Fu un momento di grande dolore, desideravo da sempre una famiglia numerosissima e non potevo. Era l'epoca di Patch Adams, il medico che andava nei reparti con il naso da clown per fare ridere i bambini, perché - spiegava - guarivano meglio».
Si è ispirata a lui?
«Lessi una intervista e mi dissi: ha ragione. Cominciai a fare volontariato e a raccontare le storie di questo topo ai bambini malati: gli succedevano disavventure di ogni tipo, come a Paperino e a Fantozzi, però a lui andava sempre tutto bene, anzi, benissimo».
Ama il lieto fine?
«Da pazzi. I bambini ridevano per le disavventure buffe, però mi chiedevano: ma finisce bene? E capii che in realtà mi chiedevano: ci sarà un lieto fine alla mia storia? Stilton è nato in trincea. Stavamo cercando, loro e io, di scrivere il lieto fine alla nostra storia».
E poi?
«Vedevo che a loro piaceva, così infiocchettavo le storie, gli creavo amici, familiari... Oggi mio figlio Stilton sta per compiere 18 anni. I suoi ingredienti sono quelli: umorismo, avventure mozzafiato incredibili e quasi tutte autobiografiche. L'onestà è ciò che lo rende affidabile, perché i bambini non ascoltano quello che tu dici, ma quello che fai, l'esempio che dai».
Il nome come nasce?
«Negli anni '90 feci un corso di paracadutismo. Così Eugenia, mia sorella, cominciò a soprannominarmi Geronimo, che è quello che gridano i paracadutisti americani quando si lanciano».
Il cognome è il formaggio.
«Un Natale ero a Londra, da amici inglesi molto aristocratici, e al dolce portarono un pezzo di formaggio puzzolente buonissimo. Dissero: Questo è lo Stilton, the king of British cheese, il re dei formaggi britannici. È ancora prodotto artigianalmente, come nel '700. La forza della tradizione».
Così è nato Geronimo, il topo da 140 milioni di copie.
«Grazie a questi libri ho realizzato il mio sogno. Ho scritto, un po' per volta e senza mai arrendermi, il mio lieto fine: sono diventata la mamma di milioni di bambini. Ai miei figli vorrei dire le cose che dico nei miei libri».
Che cosa dice ai bambini?
«Non dovete avere paura di fare fatica e di impegnarvi, quando credete in qualcosa. La vita è una maratona, non uno sprint. E nessun prezzo è troppo alto per realizzare i vostri sogni».
E queste storie che raccontava come sono diventate un bestseller?
«Ho iniziato a metterle per iscritto. Nel '97 lavoravo ancora con mio padre Piero Dami, proprietario della Dami, editrice di libri illustrati per bambini. È lui che mi ha insegnato a scrivere libri amati dai bambini di tutto il mondo: un topo è un animale, non ha etnia, tutti possono identificarsi».
Pubblicò i primi libri con la Dami?
«I primi otto, già identici. Poi nel 2000 lasciai la Dami ed entrai in Piemme. A quarant'anni mi sentivo pronta. Stilton fu lanciato con quegli otto titoli, e poi ho scritto a raffica».
Ha qualche segreto?
«Ho fatto le cose col cuore. E mi sono impegnata: notti passate a scrivere, vacanze saltate, sacrifici. Spesso i giovani pensano che la vita sia facile. La vita non è facile, ma è meravigliosa».
Ha una squadra, come Geronimo?
«Sì. Ogni libro nasce da una grande collaborazione tra chi lo inventa, lo scrive, lo illustra, cura la grafica, stampa, rilega, distribuisce, e poi ci sono il libraio e l'editore».
Nel nuovo libro, Il grande segreto, c'è addirittura l'inchiostro magico.
«Sì. Ci sono state le puzze, i profumi... Una volta ho chiesto a un bambino: Secondo te, puzza di più l'alito di drago o il piede di un troll?».
E i classici raccontati dal topo.
«Sono fra i miei preferiti, in particolare Piccole donne, Jo March... E poi Zanna Bianca, Il richiamo della foresta, Moby Dick: grandi storie, che trattano grandi valori. Mi sono chiesta: perché mi hanno aiutata a formarmi?»
Risposta?
«Il valore dell'indipendenza femminile Jo March non te lo spiega, lo racconta. Così per molto tempo tenni un post-it appiccicato al computer: Non spiegare, raccontare. Stilton non è alta letteratura, ma è la prima porticina aperta, con semplicità, sulla meraviglia del leggere».
I suoi autori?
«Ho amato moltissimo Kipling, il Libro della giungla. Adoro la natura e gli animali. Quando voglio ritirarmi a scrivere in pace e tranquillità vado nella fattoria biodinamica che ho vicino a Biella. Ho due cavalli, due mucche e un asinello, salvati dal macello. Ho anche un miele buonissimo, gli alberi di mele. È il mio piccolo rifugio. L'anno scorso poi ho creato una Onlus».
Di che cosa si occupa?
«Preferisco affidarmi a chi ha già esperienza sul campo, così sostengo varie associazioni, come Vidas, Wwf o il Granello, che aiuta i ragazzi disabili: sono stati loro a stamparmi la maglietta per la maratona di New York. Alla Onlus ho dato il mio nome, Elisabetta Dami, perché non ho figli: così continueranno ad avere i diritti di Stilton, quando non ci sarò più».
Com'era il lavoro nella casa editrice con suo padre?
«A 13 anni correggevo già le bozze dei libri di mitologia. A 15 accompagnavo mio papà alle fiere di Bologna e Francoforte. Siccome avevo imparato l'inglese, traducevo: lui voleva che traducessi tutto, anche le sue barzellette, e quando i giapponesi non ridevano se la prendeva con me».
Com'era suo padre?
«Un toscano doc. Un uomo severissimo, ma di una capacità grandiosa di cogliere le tendenze».
Si offese quando lo lasciò?
«All'inizio mi disse: Perché vuoi andare là fuori? È una giungla. Poi capì. E dopo due anni ammise: Hai fatto bene. Mi diceva: devi fare le cose con passione artigianale, con amore. E che la qualità è la somma dei dettagli. Mi ha insegnato l'orgoglio del lavoro ben fatto».
È una ribelle?
«Eh, sono un pessimo ottimo esempio. Quando ho pensato che una cosa fosse giusta, l'ho sempre fatta. E tutto quello che sognavo ho cercato di realizzarlo».
È anche molto avventurosa.
«Ho scalato il Kilimangiaro a 5.895 metri, su un sentiero, fino alla Cima d'Oro. Meraviglioso. Ho fatto trekking in Nepal. E ho preso il brevetto di pilota d'aereo, modestamente coi voti migliori del corso. Unica donna».
Quando?
«A 25 anni, a Bresso. L'insegnante all'inizio mi faceva fare cose terribili. Gli chiesi: Perché mi massacra?. E lui: Così molli prima. Alla fine mi ha detto: Non ti avevo capita. Siamo rimasti amici».
Le è servito quel corso?
«Mi insegnò una cosa importantissima: quando senti che vai giù in picchiata, non attaccarti mai ai comandi. Dai gas e vai avanti. Una lezione di vita. Nei momenti difficili, la miglior difesa è l'attacco».
Non aveva paura?
«Prendevo la pastiglia ogni volta. Del resto, come Geronimo, ho molte debolezze: soffro anche di vertigini e di mal di mare, eppure vado in barca. Ho paura come lui, ma non resisto alla sfida. Nelle fiabe di una volta c'era l'eroe senza difetti; nei racconti moderni l'eroe, come Harry Potter o Geronimo, ha delle debolezze».
Perché?
«Il lettore vuole eroi con i quali identificarsi. Ed è uno dei motivi per cui amano Stilton: ha paura, ma per salvare un amico si butta; ha gli occhiali come Harry Potter, non è un supertopo, quindi pensi: se ce la fa lui, allora ce la posso fare anche io».
Che altro ha fatto da giovane ribelle?
«Il giro del mondo, a 23 anni, con i primi soldi guadagnati. Otto mesi, a partire dagli Stati Uniti, dove feci un corso di sopravvivenza nel Maine, alla Outward Bound».
In che cosa consisteva?
«Undici giorni di marcia con lo zaino, a 25 gradi sottozero. E alla fine tre giorni in solitario, distribuiti lungo un fiume ghiacciato, dove ho rischiato di scivolare e di morire. Mi sono bloccata con un coltello. Poi da lì sono andata in Florida, nel deserto, a Hong Kong e in Polinesia, dove ho trovato il mare più bello del mondo».
Ultima tappa?
«L'Australia, in un ranch nell'Outback, dove c'era un canguro domestico e ho cavalcato a pelo. Lì ho capito che amavo la vita della fattoria. Un altro luogo magico è Harney Peak, in South Dakota. E a 32 anni ho attraversato tutta l'Africa con la jeep».
Tutta?
«Da Tunisi al Sudafrica, 18mila chilometri in quindici giorni. Era una gara in fuoristrada, abbiamo viaggiato giorno e notte: ne ho viste... Di tutto. In Zambia ho mangiato con le donne che lavorano nel progetto della mia amica Mary Fisher: cucinano tutte insieme, in un pentolone. A cena mi hanno offerto i millepiedi fritti».
Li ha mangiati?
«Quando mi sfidano... Certo. Mi hanno chiesto: Com'è?. E io: Crunchy, croccante».
Che cosa legge?
«Tutto. Ho un archivio dei colleghi: La storia infinita di Ende, Pullman, Tolkien, Rowling, la Schiappa, Leo Lionni per me sono straordinari. Ci rivolgiamo a ciò che Saint-Exupéry disse in maniera insuperabile: Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano. Tutti loro, come me, quando scrivono riescono a ritornare bambini. Ognuno in modo diverso».
Vorrebbe scrivere altro?
«Mi dia tempo».
Perché non firma con il suo nome?
«Perché il messaggio è più importante della persona che lo esprime».
Il suo prossimo sogno?
«Andare in Perù, agli scavi di Cahuachi, il più grande sito archeologico di mattoni crudi a cielo aperto».
Come Agatha Christie... Una donna come lei è single?
«Sono
single, adesso. Ho la fiducia che ci sia la mia metà, da qualche parte nel mondo. Ho quasi sessant'anni e sono molto più felice di una volta. E alle donne dico: non sentitevi vecchie e inutili, anzi, è il momento migliore».
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