"Andrea Chénier", un poeta apre l'anno dai grandi numeri

Stasera l'opera di Umberto Giodano, prova del fuoco per il tenore Eyvazov. Ecco tutti gli altri appuntamenti

"Andrea Chénier", un poeta apre l'anno dai grandi numeri

La locandina del Teatro alla Scala annunciava in data «Sabato 28 marzo 1896 alle ore 20,30 (8 1,2 pom.)» la «Prima rappresentazione del Dramma di ambiente storico in quattro quadri di Luigi Illica, Andrea Chénier. Musica di Umberto Giordano». Il successo trionfale di quella sera trasformò il compositore foggiano in celebrità mondiale. Lo testimonia il giro che l'opera compì nell'anno successivo alla prima scaligera, quando raggiunse, dopo un passaggio tiepido a Torino (Arturo Toscanini che dirigeva non ebbe simpatia immediata per l'opera), Roma, Napoli, Mosca, Lione, Buenos Aires, Berlino, Monaco, Londra, Parigi, Vienna, Pietroburgo.

Non che Giordano prima dello Chénier fosse uno sconosciuto la sua prima opera, Mala vita, 1892, riscosse notevole successo a Roma e a Vienna e fece scandalo a Napoli, dove gli spettatori del San Carlo si sentirono oltraggiati dalla rappresentazione di alcuni aspetti del degrado cittadino. Nella capitale asburgica invece il critico musicale più influente e temuto del tempo, Eduard Hanslick, apostolo di Brahms e nemico di Wagner, capì la forte natura teatrale di Giordano: «Lo spirito drammatico ha in lui più rilievo dell'invenzione musicale, il temperamento è più forte dell'arte. Egli è al tempo stesso un vero poeta, musicista, pittore».

Così da quella sera alla Scala, Giordano raggiunse Pietro Mascagni e Ruggero Leoncavallo nel consesso dei celebri operisti scoperti e pubblicati dall'editore Edoardo Sonzogno, rubricati poi sbrigativamente tutti come «veristi». Un'etichetta che non aderisce alla parabola artistica di Giordano (che finì scrivendo una fiaba, Il Re), compreso Chénier, «dramma» condizionato dall'ispirazione storica, «vale a dire da uno stato psicologico ed emozionale di natura strettamente sintetica» (G. Confalonieri), opposto all'analitica indagine della realtà presente seguita da Zola e dalla sua scuola.

Giordano condivise con i compagni di viaggio della cosiddetta Giovane Scuola Italiana, la sintesi geniale fra tradizione italiana del melodramma a «pezzi chiusi» e il dramma musicale di Wagner, sulla scia anche dell'ammirazione per quell'unicum che è Carmen di Bizet da alcuni additata come modello proto-realista e che Giordano considerava «opera divina». Questo non volle dire rinunciare alle «arie» (necessarie ai divi e alla popolarità dell'opera), ma espandere il momento solistico in «scene» articolate, cercando la sfaccettatura della «parte» a tutto tondo - per il tenore (Chénier) sarà il celebre Improvviso, Un dì all'azzurro spazio; per il baritono (Gérard) la falsa accusa di tradimento stesa per gelosia, Nemico della patria; per il soprano (Maddalena) il lungo racconto, La mamma morta.

Il fascino che Chénier ha esercitato sui grandi tenori (da Gigli a Pertile, da Del Monaco a Corelli, da Carreras a Domingo e Pavarotti fino a Jonas Kaufmann) non proviene solo dai momenti solistici, ma riguarda tutta l'estensione della grande «parte». Chénier è sempre in scena, protagonista in dialoghi e duetti drammatici altrettanto importanti. Ricordiamo che tra le parti più ispirate dell'opera ci sono i duetti fra Chénier e la giovane aristocratica, Maddalena di Coigny, la beneamata con cui condividerà la ghigliottina (Ora soave, nel secondo atto e l'esaltante finale, Benedico il destino).

Le intenzioni epiche di Chénier e il rispetto del tipico triangolo melodrammatico (tenore e soprano insidiati dal baritono, l'ex-servitore di casa Coigny, Carlo Gérard, divenuto ascoltato tribuno rivoluzionario), seguono canoni drammaturgici che riportano a Verdi. La conseguenza di Giordano da Verdi non era sfuggita a un ascoltatore fuori del comune, Gustav Mahler. Come riferisce il gran biografo mahleriano Henry Louis De La Grange, Mahler, incantato dalla personalità solare del compositore foggiano, in Chénier e Fedora «ammirerà ancor più di prima un talento che gli pareva comparabile a quello del giovane Verdi». E sappiamo che il carattere franco ed espansivo di Giordano vinse la ruvida ritrosia di Giuseppe Verdi, che, come è noto, a Milano soggiornava al Grand Hotel et de Milan, in via Manzoni, di proprietà del suocero di Giordano, Giuseppe Spatz. Così un'amichevole simpatia si instaurò «fra il cantore di Violetta ormai vicino al tramonto e l'aedo di Chénier, affacciato sopra un luminoso avvenire».

Chénier non si riduce solo a tre grandi parti. E' un grande affresco dove brulica l'umanità della Francia rivoluzionaria sotto il Terrore.

Nella caratterizzazione dei comprimari Giordano dimostra l'autenticità del suo istinto teatrale: lo svenevole Abatino che narra gli oltraggi ricevuti a Parigi dalla statua di Enrico Quarto, la Contessa che depreca i guasti del leggere gli enciclopedisti, la mulatta Bersi che si prostituisce per salvare la padrona in disgrazia, il rozzo sanculotto Mathieu che impreca contro le coalizioni antifrancesi, l'ironia dell'Incredibile, la spia-moralizzatrice di Robespierre (anzi osservatore dello spirito pubblico), la vecchia Madelon che offre alla Rivoluzione anche il suo ultimo figlio, la malafede degli alti magistrati che comminano la ghigliottina ad libitum, la ferocia delle tricoteuses, la magliaie giacobine eccitate dal macello degli ex-padroni, i poveri che muoiono di fame e rovinano il ballo della Contessa. Con buona pace di chi per alcuni decenni, prima e dopo gli anni Settanta (secolo scorso), negò a Giordano anche la patente di compositore, il solo «tono vitale» dello Chénier basta e avanza per stabilire il contrario.

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