Intervista a Pupi Avati: "La mia trasgressione? Portare Dio al cinema"

Nell’autobiografia il regista bolognese racconta gli esordi e la carriera. "Sono stato un dissidente ostinato, innovativo nel seguire la tradizione"

Intervista a Pupi Avati: "La mia trasgressione? Portare Dio al cinema"

Bologna 1964. Siamo in pieno boom economico. 8 ½ di Federico Fellini nella città è in programmazione nella sala del Dopolavoro dei Ferrovieri. Ad un venticinquenne venditore di pesce e verdure surgelate salta l'appuntamento col cliente. Il pomeriggio è dunque libero. Che fare? Il giovane va al cinema. La sala cinematografica è lo spazio ideale per liberare la testa. Evadere, conoscere, riflettere, sognare. La proiezione stordisce il ragazzo. E lo mette sulla strada giusta. Appende al chiodo la valigetta di venditore. D'ora in poi farà il regista. Quel venticinquenne è bolognese, di buona famiglia, si chiama Giuseppe Avati. Diverrà Pupi Avati, uno dei più prolifici e originali registi del cinema italiano. L'illuminazione felliniana è uno dei tanti, sorprendenti e gustosi episodi contenuti in La grandeinvenzione. Un'autobiografia (Rizzoli), libro di memorie del regista bolognese, oggi settantacinquenne pieno di intelligenza, vitalità e buonumore. La vita di Pupi Avati è la magnifica avventura di un artista italiano molto, ma molto particolare. Pupi voleva studiare la politica internazionale. Approda alla Cesare Alfieri di Firenze, dominata da Giovannone Spadolini. Ma capisce che non fa per lui e molla. Così come ha abbandonato il jazz, passione mai sopita. Il cinema è a Roma. A Cinecittà. Avati ci arriva grazie ad un altro jazzista, Romano Mussolini, figlio del Duce, che si è messo a fare il produttore. Lavora col regista Piero Vivarelli, ex repubblichino che diventerà castrista, ma che al momento sta girando Satanik. Siamo nel 1968. Pupi è un «sessantottino». Non vuol saperne nulla di politica. Ma gli piace la libertà creativa, la rottura degli schemi.
Avati «sessantottino»?
«Erano anni divertenti. Cominciammo con film anticonformisti, con proposte autoreferenziali e dunque dissuasive per lo spettatore. Non capivo nulla di cinema. Ma tutto appariva semplice, a portata di mano. Quando tornai a Bologna, di ritorno da Roma, ero convinto di saper fare tutto. E insieme agli amici, gli amici del bar che poi ho raccontato in un mio film, cominciammo l'avventura».
Come andò?
«Male! Un disastro. Beccai una condanna per oscenità. Mi sequestrarono anche un film, Bordella (1976). Restai fermo per quattro lunghi anni. Mi suggerirono anche di cambiare nome. Ma io resistetti. Decisi invece di cambiare pelle. A Roma frequentavo il salotto di Laura Betti. Lì cenavo con Bernardo Bertolucci e Pier Paolo Pasolini. Ma non ero loro. Non aveva senso scimmiottarli. Così decisi di riappropriarmi della mia identità e diventare quello che sono stato: un regista indipendente».
Meglio viaggiare da soli, al massimo in sella col tuo inseparabile fratello Antonio?
«Sì. Meglio così. Il mio è stato un viaggio solitario. L'avventura di un dissidente ostinato. Mi sono volutamente messo nella condizione di vivere ai margini. Ho remato contro. Ho manifestato senza timori il mio essere alternativo. Sono andato sempre a lavorare sul set con la cravatta, come Fellini e Mario Monicelli. Voglio dire che più che il futuro sono stato attratto dalla tradizione. Un curioso osservatore come Furio Scarpelli mi diceva che ero innovativo, proprio perché antiquato. Aveva ragione. Non ho mai rincorso le mode. E tutto sommato è andata bene. Ho lavorato tanto. Ma alla mia famiglia ho fatto pagare un prezzo altissimo. Il mio egocentrismo, la mia somma presunzione li hanno dovuti scontare mia moglie e i miei figli. Un mio insuccesso è stato un loro insuccesso».
Sei uno dei pochi registi italiani che non hanno paura di confrontarsi con la religione. Perché?
«Perché la trascendenza deve essere inclusa nella vicenda degli esseri umani. Ai laici spesso manca questa curiosità nei confronti del divino. Ma come si fa a vivere senza ritagliarsi lo spazio di una entità superiore? Lo ritengo impossibile».
Tra un vincente e uno sconfitto chi sceglie Avati?
«Gli sconfitti. Li amo. I falliti mi seducono, come mi seducono le sconfitte. Solo dalle sconfitte si impara qualcosa di vero.

Nella sconfitta scopri la tua vulnerabilità. L'uomo cresce nella sofferenza. Sofferenza per un talento sprecato, per il tradimento di una donna o di un amico».
Chi manderesti all'Inferno?
«Gli stigmatizzatori. L'Italia ne è piena».

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