"Ambrosoli, la verità di un eroe comune ci rende tutti più liberi"

Domani la docu-fiction Rai di Alessandro Celli su Raiuno sull'avvocato ucciso nel 1979

"Ambrosoli, la verità di un eroe comune ci rende tutti più liberi"

L'eroe ignorato. Anzi: cancellato. La clamorosa assenza al suo funerale di rappresentanti del governo e dello Stato, perfino la misteriosa sparizione dalle Teche Rai dei filmati che lo riguardano, dimostrano quanto su Giorgio Ambrosoli abbia a lungo gravato un colpevole (forse intenzionale) silenzio. Anche per questo, a quarant'anni dal suo assassinio, Raiuno ravviva il ricordo del commissario liquidatore della banca di Michele Sindona che l'11 luglio 1979 pagò le sue indagini su un sistema politico-finanziario corrotto con quattro colpi di rivoltella. «Io stesso per anni non ho saputo nulla di lui ammette Alessio Boni, che lo interpreta nella docu-fiction Giorgio Ambrosoli, il prezzo del coraggio di Alessandro Celli (in onda domani in prima serata) - Ricordo solo che da bambino ne sentivo parlare come di un uomo giusto ucciso da uomini cattivi».

E oggi? Che idea se n'è fatto?

«Quella di un uomo coraggioso. Intendiamoci: ci sono molte forme di coraggio. Chi con una pistola in mano si sente padrone del mondo è, in realtà, un vigliacco. Ma chi segue la sua morale senza essere moralista, e per questa morale è disposto ad arrivare alle estreme conseguenze, quello è un uomo coraggioso».

Questo è il ritratto di un eroe. Che fu anche un uomo comune?

«Soprattutto un uomo comune. Ma costretto a diventare eroe. Ambrosoli faceva l'avvocato; non il magistrato o il carabiniere, che la morte possono anche metterla in conto. Però era onesto in un mondo corrotto. E com'è che si dice? - se tu sei sano in un manicomio, il pazzo sei tu».

Prima di lei il personaggio di Ambrosoli lo hanno interpretato anche Fabrizio Bentivoglio, nel film Un eroe borghese del 1995, e Pierfrancesco Favino, nella miniserie Qualunque cosa succeda, del 2014. Li ha visti?

«Ho voluto vederli entrambi, appositamente. Quando affronto un personaggio vedo e leggo tutto quello che posso. Osservando le sue foto quello sguardo intenso, la schiena sempre dritta, quel suo modo di camminare: oggi non si cammina più come allora - lo immaginavo serioso. Ma la moglie Annalori e il figlio Umberto, Al contrario m'hanno detto - era spiritoso, amava gli scherzi, giocare coi suoi figli. Non si portava mai il lavoro a casa. Forse per questo interpretare la sua storia non mi ha trasmesso tristezza. Ma un'iniezione di positività e di fiducia. Come vedere una luce in fondo al tunnel».

Crede nel valore civile delle docu-fiction, che mescolano finzione a testimonianze e filmati di repertorio?

«Assolutamente. E tanto più, come in questo caso, su figure poco note o colpevolmente ignorate. Dirò di più: per storie simili funziona più la docu-fiction che la fiction vera e propria. E pensare che non volevo farla! Avevo troppo lavoro. Ma quando mi sono addentrato nella sceneggiatura non sono più riuscito ad uscirne. Anche sul set tutti, dal regista ai macchinisti, eravamo avvolti dal fascino di questo personaggio. La verità che emana ha fatto male a qualcuno. Ma chi vuole ascoltare la verità viene reso ancora più libero».

Il fatto che nella docu-fiction la finzione sia messa a continuo confronto con brani di realtà, condiziona il lavoro creativo di un attore?

«Non mi sono preoccupato di assomigliare all'Ambrosoli dei filmati che si vedono alternati alla mia interpretazione. Mi sono immerso nel personaggio e basta. Il resto riguarda il regista. E il montatore».

Tra i filmati di repertorio c'è anche quello di Giulio

Andreotti che pronuncia la famosa frase «Ambrosoli? Era uno che se le andava a cercare».

«L'insolenza del potere. Quelli erano anni in cui i potenti potevano permettersi di tutto. Anche battute bieche come questa».

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