Ceronetti, c'è un tempo per rileggere il "suo" Qohélet (mezzo secolo dopo)

I cinquant'anni dell'edizione Einaudi della sua traduzione biblica più celebre

Ceronetti, c'è un tempo per rileggere il "suo" Qohélet (mezzo secolo dopo)

S'incuneò in una solitudine piena di incantesimi semiti, aveva 28 anni, il suo Tabor era Torino, siamo nel 1955. «La mia storia comincia con una stentata versione interlineare in un'auletta deserta della sinagoga torinese, tra alquanta diffidenza iniziale...». Guido Ceronetti comincia la speleologia biblica con Qohélet, «un libro assoluto» che «uccide tutte le brame, annichila tutto, promulga spietatamente la legge del Nulla». Il buco nero del canone biblico, Qohélet. Retto da quella parola, miliare, luce e incendio, havèl, che vuol dire «vanità» ma anche «soffio», «fumo», ed è l'origine del nome Abele. Tutto è vanità, tutto è fratricidio, tutto è sacrificio del debole, sembra dire, con affidabile violenza, quel testo. Che c'entra la Bibbia? Ceronetti non ha ansia da neoconvertito. È che quando, intorno, il mondo ti pare il «di più», rientri lì, nel deserto, cercando la parola che annienti tutto. Ceronetti pratica Qohélet con dedizione pitagorica, ne esce frastornato di gloria: pubblica la sua versione nel 1970, per Einaudi, cinquant'anni fa. Poi ritorna in quel testo, per anni, fino all'Adelphi del 2002. Qohélet strazia di sentenze: la vita è coazione a ripetere («le stesse cose sue ripeterà»), azione scema («giorni contati di vita inutile»), scempio senza orizzonte di al di là («Figli d'uomo o di bestie/ Muoiono/ In tutti è lo stesso soffio/...A un identico luogo vanno tutti»). La prima traduzione pubblica fu il libro dei Salmi, per Einaudi, nel 1967 riveduto nel 1994, poi nel 2006. «La terribile Scrittura insegna tutto... Inutile cercare il bene, o condannare il male, dove non si trova, nella sua funesta unità, che la vita».

Aprì un genere, Ceronetti: con la sfrontatezza di uno che maneggia il machete nella foresta delle interpretazioni, si appropriò del Testo sacro. L'unico precedente di traduzione fuori dall'accademia o dal catechismo era Il Vangelo edito da Neri Pozza nel 1948, con le versioni di Nicola Lisi, Corrado Alvaro, Diego Valeri e Massimo Bontempelli. Ma si trattò, per lo più, di un esercizio di devozione. Seguaci, Ceronetti non ne ha Erri De Luca fa l'effetto del sushi dopo aver divorato una fiorentina. Lì, in effetti, nelle traduzioni, nelle continue note, nelle possenti postfazioni è l'indimenticabile della sua opera. Leggo dal Libro di Giobbe (meriterebbe ristampa): «Il mio orecchio aveva captato/ Vaghi suoni di te/ Ma adesso ti ho veduto/ E per questo mi odio/ E mi consolo/ Sulla polvere e sulla cenere». Credo, con tremenda spavalderia, che il lavoro di Ceronetti vada portato avanti. Dieci anni fa, con l'editore Raffaelli, mi ero messo all'avventura aprendo una collana editoriale, «La Bibbia», dalle intenzioni epiche. Chiamai a raccolta scrittori e poeti: scegli un rotolo biblico, gettati lì, abitalo. Obbligati a tradirlo. Senza alcuno schema filologico altrimenti, basta la beata edizione Cei dando credito a San Paolo che ritiene la traduzione un carisma. Risposero alcuni Gian Ruggero Manzoni, Andrea Temporelli, Leonardo Bonetti altri avevano altro da fare; certi libri uscirono Esodo, Genesi, Cantico dei Cantici, Lamentazioni... L'ipotesi si infangò in attesa dell'avvenimento. Ora abbiamo il privilegio dell'eccezionalità, la quarantena dovrebbe funzionare da squarcio, da etica con l'ascia. Gli scrittori peripatetici che dal parapetto della fama proclamano i loro romanzi adatti, perfetti, ombelicali, socialmente utili, cerchiobottisti né troppo buoni, né troppo crudeli si sperano estinti. Vogliamo, piuttosto, la parola prima e ultima, che scardini la carne, che vinca la morte. Ecco. Gli scrittori dovrebbero tornare a riferire la propria tradizione, a scuoiarla o a esaudirla. Rifare il volto alla tradizione. Ecco. Chi traduce Giona, chi Tacito, chi i Veda; chi Eschilo, chi il Corano. Rileggere tutto, trafugare ogni verbo alla luce di questa apocalisse facendo delle nostre case uno scriptorium. Leggendo Il libro del profeta Isaia (in catalogo Adelphi, si attende ristampa) Ceronetti apprende la necessità fisiologica dell'urlo e la sua esegesi. «L'umanità, perdendo a poco a poco il contatto con l'urlo in ogni tipo di catastrofe, si è privata di uno sfogo imponente e necessario. La nostra risposta al disastro è diventata la solidarietà morale messa nella trama di un'analisi storica: Abbiamo perso perché...

Da roba simile né i Persiani né Isaia 24 sarebbero mai nati! Ed è il ruggito, il ruggito soltanto, che ci consola». La disciplina del ruggito. Ecco. Ma noi abbiamo ruggine sulla lingua cantiamo una serenata, dai balconi, al disastro.

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