Ciao Mino, hai portato la tivù in alto

Era un giornalista ma non è mai stato bravo con la stampa né, tanto meno, con gli uffici stampa. Infatti la notizia della sua morte, avvenuta venerdì, ieri è arrivata come da un altro pianeta. Se n’è andato a settantadue anni Mino Damato, ma era arrivato troppo presto. È stato uno degli ultimi a cercare di portare la televisione in alto. Con le sue carrellate di personaggi che arricchiscono la realtà pur non facendone parte, con quella sua ostinazione pulita per l’intrattenimento divulgativo. Quella passeggiata sui carboni ardenti dentro la sua Domenica in (edizione 1985-86) fu in realtà una delle ultime volte in cui la tv andò sui giornali per qualcosa che ci era accaduto dentro anziché per le polemiche su chi dovrebbe controllare cosa deve andare in onda. Però gli costò la parodia di Beppe Grillo, che in tutta risposta si mise a camminare su una pizza calda, e quella di Ezio Greggio che subito lo soprannominò «Mino D’Amianto».
Sta di fatto che, in tv, è stato un mattatore negli anni Ottanta e Novanta, e che nella sua vita lo è stato fino a tre giorni fa. Il filo conduttore che ha cercato di tendere tra tutti i suoi programmi, e ancor di più fuori dal piccolo schermo, è stato il tentativo dell’uomo di superarsi, in positivo. Non aveva un carattere semplice e non faceva una tv semplice. O almeno ci provava, tra cose riuscite e altre un po’ meno. Certo se ne stava alla larga dal banale, dalla sciatteria, dai quei chili di roba che oggi si trovano nei contenitori e che solleticano gli spettatori senza riuscire a farli ridere. Iniziò sulla carta stampata e nel 1968 divenne inviato del Tg1, si occupava soprattutto di reportage dalle zone di guerra. Fu sua la prima diretta tv dall’Afghanistan durante l’invasione da parte dell’Unione Sovietica. Ma dopo un po’ di anni, si mise a fare l’autore e il conduttore televisivo. Arrivarono Avventura, Racconta la tua storia, In viaggio tra le stelle, Tam Tam. Poi, nel 1983, Italia sera con Enrica Bonaccorti, Domenica in, Esplorando, Alla ricerca dell’Arca...
Sognando sognando fu un flop che l’azienda gli chiuse dopo poche puntate (oltretutto avevano fretta di smontargli lo studio per mettere in piedi la trasmissione elettorale di Bruno Vespa) «senza sostenerlo», a suo dire. Si dispiacque, se la prese, reagì. Per il ritorno dopo due anni d’assenza da Viale Mazzini, preparò Grand Tour, che di fatto fu il suo ultimo programma. Un viaggio negli avvenimenti e nei sentimenti. Nelle puntate parlò del Vietnam, del ’68, della caduta del Muro, di Tangentopoli, del senso di giustizia, della povertà e dell’amore coniugale. Era il 1997 e in studio teneva fissi degli studenti di sociologia e un «addetto» di Internet.
Il giorno in cui Damato passò all’allora Telemontecarlo, nessuno parlò di «retrocessione», si limitarono tutti a dire che Tmc si era portata a casa un numero uno. E quando traslocò da Berlusconi, su Retequattro, nel suo Alla ricerca dell’Arca, riuscì a coinvolgere la più schiva di tutti gli schivi Barilla: Emanuela. Mise la rampante della pasta italiana a condurre quel contenitore che voleva essere una crasi dei suoi due precedenti: l’Arca di Raitre e gli Incontri Televisivi di Tmc. E riuscì a portare in studio Brooke Shields e la sua «chiacchierata verginità». E poi anche lì, dalla scienza ai temi sociali. Che a un certo punto della sua vita divennero la sua vita. In Romania creò la «Fondazione Bambini in Emergenza» che si occupava di assistere i piccoli affetti da Aids e adottò una bimba malata, Andreia, che morì dopo poco tempo a soli nove anni. Lasciandolo a cuore gelido e a determinazione granitica. Dalla tv scivolò via. E poi ci fu la politica nella vita di Damato. Con qualche polemica, dissensi, bruschi cambi. Perché era un morbidissimo ruvido che voleva sapere di assomigliarsi ogni sacrosanto giorno della sua eistenza.
Nel 1999, nelle liste di Alleanza Nazionale, si candidò alle Europee e fu il primo dei non eletti nella circoscrizione Centro, con quasi ventottomila preferenze. L’anno dopo, per lo stesso partito, venne eletto nel Consiglio regionale del Lazio. Ci fu una brutta lite con Francesco Storace e Damato abbandonò An (per iscriversi prima al gruppo misto e per passare poi, anni dopo, a Forza Italia) spiegando che tanto lì non serviva. Al presidente della Regione Lazio rimproverava «una considerazione rituale delle istituzioni» e ipotizzò che forse Storace lo soffriva «perché la mia filosofia di vita è pericolosa per un politico: potrebbe rubargli la scena.

La macchina della verità salterebbe se dicesse che mi stima». Furono parole dure in un momento difficile. Poi, nel tentativo di placarsi da quell’ultima bufera ammise, autorecensendosi al meglio: «Forse la mia vocazione è quella di stare con le minoranze».

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