Il cibo come opera d'arte non solo da fotografare

Indira Fassioni

Il cibo non è più un piacere, non più una necessità. Da quando il palinsesto televisivo è stato farcito con programmi culinari, mangiare cosa e come è diventata la manifestazione di uno status, o il simbolo di uno spiccato senso critico. Oggi la convivialità è al centro dell'aggregazione sociale ed è sempre più forte la tendenza a sedersi a tavola e fotografare ogni momento del pasto. Mi sembra doveroso fare una riflessione. Alla base di tutto questo manca la vera conoscenza del cibo: ci ritroviamo a mangiare «piatti destrutturati e scomposti» senza conoscere gli ingredienti della ricetta tradizionale. La cucina italiana è un nostro valore, deve essere libera ma rispettosa del passato e della memoria. Che siano ricette appartenenti alla tradizione borghese, aristocratica o popolare, l'importante è che non si snaturi la sua origine: i piatti non devono solo divertire, ma mantenere una cultura. Gli chef hanno una missione: l'obbligo di rappresentare il territorio in cui operano attraverso la conoscenza di componenti essenziali quali aria, acqua e terra. La comunicazione con il terreno è fondamentale per rafforzare la grande biodiversità della gastronomia italiana. Gli chef devono essere in grado di trasferire nelle loro composizioni l'autenticità dei sapori, perché il cibo non può essere puro spettacolo. Spesso l'estetica prevale sul gusto e in un mondo che corre alla velocità dei social colpisce ciò che non resta.

Non sempre è necessario creare il nuovo piatto. Si può portare avanti la tradizione o rinnovarla, ma non basta la passione: serve competenza. Un ottimo lavoro è stato fatto ad esempio da Michelangelo Mammoliti, una stella Michelin de La Madernassa di Guarene (Cuneo), che ha recuperato radici dimenticate, germogli, fiori ed erbe selvatiche che raccoglie e coltiva personalmente nel suo orto. La sua è una ricerca che si spinge al di là delle materie prime: ha fatto un grande lavoro sulla memoria cognitiva. Le molecole di profumo inalate attivano la memoria dei sapori che vengono analizzati dall'olfatto retronasale per far riaffiorare il ricordo del cibo del nostro passato.

Una ricerca del «gusto d'infanzia» volta a rimarcare le origini da cui proveniamo e attraverso questa strutturare una propria identità culinaria. L'Italia può ambire a diventare capitale mondiale della gastronomia e, citando uno chef a me molto caro, Eugenio Boer del ristorante Bu:r di Milano, «la tradizione è la vera rivoluzione».

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