Così Cioran "il furioso" dettò l'ultimatum all'esistenza

Per il filosofo, "non essere niente" è la vera libertà. E lo scrittore deve "far del male", ma senza "militanza"

Così Cioran "il furioso" dettò l'ultimatum all'esistenza

Scrive il sessantaduenne Emil Cioran: «Quando ero giovane, la mia idea era che non si dovesse superare i trent'anni, che se non mi fossi ucciso a quell'età sarei stato un pover'uomo... Ebbene, sono diventato quel povero uomo». E allora, per raccontare l'intricata biografia umana e intellettuale di «quel pover'uomo», diventato nel frattempo uno dei più grandi scrittori del Novecento, ci sono solo tre modi: fare incetta di libri, approfondire la letteratura secondaria, leggere un numero sproporzionato di interviste con annessa produzione epistolare. Su questo ultimo punto, ci corre in soccorso il lavoro di Antonio Di Gennaro che, per la Scuola di Pitagora editrice, ha curato un volume di oltre quattrocento pagine dal titolo Ultimatum all'esistenza. Conversazioni e interviste (1949 - 1994).

Il crinale è certamente segnato da un'angoscia interiore mitigata dalla scrittura, che è estremo sostegno e, forse, via di fuga: «scrivere è una profanazione perché si uccide l'argomento. Il che è terapeutico». Puro atto liberatorio senza alcun intento pedagogico: «quando scrivo, non penso alle conseguenze». La sua assoluta e totale libertà è, infatti, quella di un eretico che riesce a sconfessare gli stessi adulatori della libertà: «Non essere niente è un sentimento di straordinaria libertà. La libertà rappresenta la possibilità non solo di pensare diversamente dagli altri, ma di vivere le proprie contraddizioni con disinvoltura». E così, non avvertendo un sentimento di responsabilità nei confronti del lettore si sente poco coinvolto dallo spreco di definizioni sul suo conto (nichilista, gnostico, pensatore della crisi, pessimista, anti-profeta, angelo sterminatore) perché «si scrive per far del male, nel senso superiore del termine, per turbare. Uno scrittore che non martirizza, non m'interessa. Dato che la vita è quella che è, vale a dire una cosa assolutamente terribile, non vedo perché la si dovrebbe imbellettare».

Letta da questa prospettiva non è più dunque una banale estraneità allo spirito del tempo ma tentativo di liberazione dal mondo. Si sente infatti simile a Baudelaire «che ha il sentimento dell'irreparabile», ma ripudia la definizione di ribelle - «che presuppone la militanza», e non accetta nemmeno quella di disperato, posizione che non conduce a niente: «Avrei potuto trovare un'uscita, ma ritengo che non ve ne siano, ciò ha fatto sì che io mi sia adoperato a guardare le cose». Motivo per il quale scarta Sartre che «ha descritto il nulla, ma dal di fuori, come un qualsiasi altro analista».

Una consonanza sincera la trova invece con Dostoevskij e con la passione distruttiva dei suoi personaggi le cui vicende individuali non sfociano per forza nella fede ma nell'attraversamento delle situazioni-limite. Eroi negativi che «vanno troppo lontano, che esplodono, che giungono fino in fondo a sé stessi e oltrepassano tale limite».

Funesto demiurgo che non crede nel senso della storia («che la storia abbia un corso, non significa che ci siano lezioni da trarne, come pretende il marxismo») e, pur negandolo fermamente, rimane tuttavia legato al senso biblico-cristiano in cui è centrale il peccato originale: «l'idea che l'uomo abbia iniziato con una caduta, che egli provenga dal paradiso perduto e che la storia non sia altro che lo sviluppo e il trionfo del peccato originale». Dopotutto, in più di un'intervista ripete: «il dramma non è morire, ma nascere».

Cioran aveva vissuto l'epoca del radicalismo ideologico ma aveva poi abiurato tutte le Verità. E dunque non innalzerà templi, non rincorrerà religioni o ideologie ma tenterà solo di congedarsi dal mondo. Quando approda a Parigi confessa di sentirsi un meteco, quel forestiero libero che nell'antica Grecia viveva in città, ma era escluso dalla partecipazione attiva alla politica. Straniero smarrito in una capitale che simbolicamente rappresenta tutto l'Occidente e non crede più a nulla: «che non aveva più accesso alla sua mitologia, e che per forza di cose, non poteva rappresentare un punto saldo per questo solitario proveniente da un altro luogo. L'Occidente è condannato. Inconsciamente tutti lo sanno, ma pochi osano affermarlo». Ma quello spazio cittadino, che è insieme locale e globale, svela quanto la sensazione di precarietà si prepari a divenire destino per tutti: «In ogni uomo c'è un futuro meteco».

Dunque, un futuro da sradicati assoluti. Ecco la sua avversione alla procreazione («quando vedo un bambino divento terribilmente triste. Non potrei assolutamente assumermi la responsabilità di gettare qualcuno in questo mondo»), ma anche l'insofferenza a stabili relazioni con l'altro sesso. A Sibiu, andava al bordello ogni giorno: «il cambiamento avvenne dopo l'arrivo dei tedeschi a Parigi.

Iniziai ad avere un rapporto normale con donne che non erano prostitute e considerai ciò come la prima grande sconfitta della mia vita. Da allora cominciai a dipendere dalle donne».

Un unico punto fermo... il pensiero del suicidio: «senza questa idea mi sarei ucciso da un pezzo. E non c'è bisogno di uccidersi, l'importante è averne l'idea».

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