Così la tecnocrazia ha sostituito la politica e messo a rischio la nostra libertà

Finge di governare i conflitti con la razionalità ma essi riemergono più forti

Così la tecnocrazia ha sostituito la politica e messo a rischio la nostra libertà

Siamo sicuri che la democrazia (intendo quella liberale, cioè costituzionale e rappresentativa al tempo stesso) sia entrata in crisi perché il dèmos, abilmente manovrato da politici fattisi imprenditori della paura (i cosiddetti populisti), abbia manifestato sintomi patologici che, proprio come nel caso di una malattia, vanno estirpati con farmaci potenti o semplicemente aspettando che l'organismo si risani? Lorenzo Castellani, in un dotto saggio scientifico molto ben scritto, appena pubblicato da Liberilibri (L'ingranaggio del potere, pagg. 242, euro 17), ci dà buoni elementi, fattuali e di ragionamento, per farci comprendere che le cose non stanno proprio così, cioè come le vorrebbe la lettura più semplicistica seppure accreditata. E anche la più comoda, perché evita alle classi dirigenti, occultando il vero problema, di assumersi le proprie responsabilità.

Il fatto è che, man mano, nelle nostre democrazie è andata crescendo una classe burocratica, la tecnocrazia (o tecno-democrazia come Castellani la chiama), che svolge un ruolo politico pur trincerandosi dietro idee come la competenza, lo specialismo, la razionalità. Ove però è la razionalità formale, tecnica, strumentale, che si è perorata, con la conseguenza che si è preteso per questa via, e non per quella politica, di governare i conflitti. Anzi, più che governarli li si tende ad estirpare, in un'ottica spoliticizzante che fa a pugni con l'idea democratica. Salvo che poi quei conflitti sono riemersi da ogni dove, assestando colpi terrificanti alle istituzioni che le democrazie storiche avevano faticosamente costruito. Basti pensare alle ultime vicende di casa nostra, al proliferare di task force e decreti che esautorano il parlamento, cioè l'organo democratico e di rappresentanza per eccellenza, per rendersi conto di questa deriva, che non è solo italiana. D'altronde, se l'epoca globale è l'epoca delle emergenze continue e sistemiche, come le si può governare con i tempi lunghi e tortuosi della democrazia rappresentativa? Eppure un dèmos senza kratòs è un pericolo non irrilevante per la salvaguardia del bene che tutti dovremmo avere più caro, cioè la libertà.

Il libro di Castellani ha due meriti, essenzialmente: di riproporre, aggiornandolo alla complessità del nostro mondo, un discorso sulle élite, e la loro legittimazione in democrazia, che è stato in passato uno dei pochi momenti mondiali della scienza politica italiana (Mosca, Pareto, Michels); di porre la questione in un'ottica storica, essendo, fra l'altro, quello del razionalismo in politica, un vizio di origine della stessa modernità, cioè dell'epoca che ha voluto fare a meno del principio di autorità. La modernità politica si è legittimata come governo razionale, basato sulla legge e su procedure formali, ma in verità c'è sempre stata in essa una tensione irrisolta fra la forma e il contenuto, fra l'eguaglianza predicata e l'eccellenza ricercata, fra consenso e competenza (la scienza è un altro dei motori del Moderno). Non solo irrisolta, ma anche irrisolvibile (proprio per l'assoluto immanentismo e nichilismo di fondo) e tutto sommato proficua. Questa dialettica oggi si è rotta, ci dice Castellani, e la pretesa quasi salvifica di una global policy (quella che in embrione si esprime nelle organizzazioni sovranazionali) ne è la plastica dimostrazione. «Il capitalismo globale - scrive acutamente l'autore di questo libro - ha creato maggiore ricchezza e progresso tecnologico e le istituzioni tecnocratiche, agendo come riduttori di rischi e incertezze, hanno garantito la stabilità di mercati e stati, ma il prezzo da pagare è stata la menomazione dei capisaldi del liberalismo politico».

Castellani è troppo serio per indicare soluzioni e vie di uscita definitive, soprattutto per noi liberali, o di fare semplicemente previsioni sul futuro.

Quello che però ci fa capire è che oggi in qualche modo va riconquistato il dèmos, ma che a farlo non possono essere, per principio, i sacerdoti della nuova (vecchia) religione tecnocratica. Inconsapevoli, fra l'altro, di star servendo anche loro una divinità, e per di più dis-umana.

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