Sergio Martino racconta se stesso a 360 gradi, in un'autobiografia godibile intitolata Mille peccati... nessuna virtù? (ed. Bloodbuster). Il «regista trash emerito», come ironicamente ama autodefinirsi, ha messo nero su bianco la panoramica di un'esistenza intensa, costellata di riscontri notevoli al botteghino e stroncature frettolose da parte della critica ufficiale, che nei riguardi del cinema di genere si mostrava spocchiosa. Per poi ricredersi, influenzata positivamente dai panegirici di Quentin Tarantino in lode dei cosiddetti B-movies.
Ora come ora, titoli di Martino quali Giovannona coscialunga disonorata con onore o L'allenatore nel pallone vengono trattati col riguardo che si deve a una stagione unica del nostro cinema, in cui l'Italia risultava essere il Paese europeo con la produzione filmica più cospicua.
La storia ha inizio col piccolo Sergio il quale, nato nel '38, era troppo minorenne per cogliere il dramma del conflitto mondiale. In compenso, già allora era attratto dal cinematografo, e questa attrazione si accresceva in virtù della frequentazione con un nonno speciale: Gennaro Righelli, regista de La canzone dell'amore, prima pellicola sonora realizzata dalle nostre parti.
Il Dna insomma sembrava segnato, ma Martino ci mise un po' prima di convincersi che la strada da percorrere era quella già battuta dall'avo. Il primo in famiglia a «sposarsi» con la settima arte fu il fratello Luciano, che nei decenni a venire sarebbe divenuto un produttore quotato. Ma venne il momento anche per lui di entrare nel mondo della celluloide. Dapprima come lettore di sceneggiature per la Titanus, poi segretario di edizione nelle pellicole prodotte dal fratello e infine regista. Il racconto di ogni suo film è condito, nel libro, dallo svelamento di aneddoti divertenti, oppure dolorosi. Episodi accaduti ovunque, dalla Death Valley dove gli hippy accompagnarono con uno scrosciante applauso il suo primo (e unico) tiro di spinello fino alla giungla dell'estremo Oriente, pericolosa ma ricca di fascino. La professione gli ha consentito di frequentare ogni tipo di location e ogni tipo di persone, compresi i miti dello schermo. Ad esempio Bruce Lee, che aveva il culto di Steve McQueen e voleva imitarlo pure nei cachet, tant'è che il film con Martino saltò perché la produzione non volle sborsargli 500mila dollari, abituale compenso dell'attore statunitense. Poi Nicole Kidman, che lui per primo scoprì offrendole una parte da protagonista in un film per la televisione, non ottenendone però in cambio riconoscenza. Quando Tarantino anni dopo la incontrò, ricordandole che doveva moltissimo a Sergio Martino, la diva non aprì bocca, limitandosi a un cordiale sorriso di circostanza.
Nel pantheon di belle donne che ha avuto modo di scoprire e lanciare, decisamente Edwige Fenech gli ha regalato maggiori soddisfazioni, consentendole di
emergere coi thriller «morbosi» e poi sfondare nel settore della commedia.La parabola artistica di Sergio Martino, fra il pubblico che non lo ha mai abbandonato e la critica resipiscente, è un'avventura che andava raccontata.
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