È più di un libro, è un monumento. Un monumento della storia dell'arte sebbene, nonostante le 612 pagine di grande formato, non sia per nulla un mattone. Mecenati e pittori di Francis Haskell è un capolavoro storiografico e questa bellissima edizione Einaudi, a tanta distanza dalla prima uscita italiana (Sansoni, 1966), ha del miracoloso. Dunque non tutto è perduto: se libri così importanti, e imponenti, vengono ristampati è lecito immaginare che i lettori colti esistano ancora. Mecenati e pittori descrive una lunga decadenza: «Tra il 1623 e il 1797 il declino politico di Roma e Venezia, i due centri più vitali dell'arte barocca, fu pressoché continuo». Un crepuscolo che paradossalmente può confortare: se la decadenza italiana è una piaga periodica, un malanno ciclico, può darsi che dalla presente crisi, all'apparenza interminabile e irrimediabile, si possa risorgere così come risorgemmo almeno altre due volte, durante l'Ottocento e dopo la seconda guerra mondiale. Ma questo è un discorso che ci porta troppo lontano dalla pittura sei-settecentesca oggetto del libro e dal pensiero di Haskell, un inglese impolitico che nella prefazione scrive: «Mi sono tenuto lontano dalle generalizzazioni, attenendomi rigorosamente a criteri empirici. Inevitabilmente ho dovuto più volte propormi il tema dei rapporti tra arte e società, ma nulla nelle mie ricerche mi ha convinto dell'esistenza di una trama di leggi valide in ogni circostanza». Qui mi è tornata in mente un'altra grande personalità inglese, Margaret Thatcher, colei che meravigliosamente affermò: «La società non esiste». La società non esiste, esistono gli individui, esistono i mecenati, esistono i pittori. E pazienza se il curatore del volume, il famoso Tomaso Montanari, non sarà d'accordo. Lui di Haskell è stato allievo alla Normale eppure sono convinto di essere, dal punto di vista filosofico, molto più haskelliano io. Quando si occupa di politica anziché di arte, Montanari diventa un idolatra di quella Costituzione che è precisamente una legge considerata dai suoi inflessibili sostenitori valida in ogni circostanza. Quanto di meno empirico e più ideologico. Ma adesso smetto di parlar male dello storico dell'arte fiorentino perché senza di lui questa tanto necessaria riedizione forse non esisterebbe.
La prima parte di Mecenati e pittori è dedicata a Roma ed è ovviamente una galleria di papi e cardinali. Solo che dopo la morte di Urbano VIII, il supermecenatesco Maffeo Barberini, per gli artisti iniziarono anni grami: la crisi economica, guerre che spostavano stanziamenti dagli affreschi alle armi, e nel 1656 il colpo di grazia della peste (14.000 morti in una città che contava meno di centomila abitanti). Bernini pensò bene di andarsene a lavorare in Francia mentre un bravissimo pittore come Salvator Rosa si troverà disoccupato: «Commissioni da farne, è un anno che non s'è veduto un cane ad ordinarne; e, se le cose della guerra pigliaranno vigore, potrò piantare i pennelli nell'orto».
Nella seconda parte, la più breve, Haskell racconta la cosiddetta «scena provinciale»: città che nei secoli d'oro avevano recitato da protagoniste sulla scena artistica internazionale erano ormai diventate periferia, appunto provincia. In ogni città il mecenatismo aveva un'origine diversa: a parte le commissioni degli ordini religiosi, a Genova a collezionare erano soprattutto i membri dell'aristocrazia mercantile, a Bologna i medici, a Napoli gli avvocati... Ma «per quanto indispensabile si rivelasse il loro sostegno alla sopravvivenza della pittura italiana, non potevano certamente ricreare l'atmosfera della Roma dei Barberini e della loro cerchia».
Nella terza e ultima parte, lo storico inglese ci porta a Venezia, ritratta negli anni della sua agonia. Mecenati e pittori andrebbe letto, riletto, ammirato e sottolineato riga per riga ma se non avete tempo limitatevi alle pagine su Francesco Algarotti e Teodoro Correr. Il primo era un collezionista, fratello di collezionista, consigliere di collezionisti, critico d'arte, mercante, poligrafo, iconografo, bestsellerista, insomma uno degli ingegni più versatili del Settecento italiano anzi europeo, visto che visse a lungo in Germania anche per convincere i sovrani di Prussia e di Sassonia a commissionare agli artisti veneziani opere che lui, semplice benestante, non poteva permettersi. La figura di Correr è ancora più commovente: il nobile collezionista impiegò tutto il suo denaro e le sue energie, prima e ancor più dopo il letale 1797, per trattenere a Venezia almeno una parte dei quadri che le grandi famiglie ormai impoverite offrivano ai ricchi stranieri.
«Morì infine nel 1830, lasciando alla sua città natale il frutto di oltre mezzo secolo di avido collezionismo, e concludendo così nel modo più degno quella tradizione d'interesse aristocratico per le arti che aveva avuto inizio tanti secoli prima». Haskell dimostra che non ci sono scuse: anche nella decadenza si può essere meritevoli e grandi.
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