«Ecco il Beethoven che mi ha preso 40 anni di studio»

Da martedì è in circolazione quello che è stato annunciato come l'evento discografico dell'anno: un cofanetto di otto cd con tutte le 32 Sonate di Beethoven secondo Maurizio Pollini. Ovvero il Pianista Italiano, nella top ten degli interpreti che contano e con successi discografici (Grammy, disco di platino) da popstar. In questa integrale, incisioni degli anni Settanta si avvicendano con esecuzioni del 2013, per il 90% le quasi dieci ore di musica nascono in sala di registrazione.

Un monumento firmato Deutsche Grammophon che così raccoglie 40 anni di lavoro di un artista (classe 1942) che ha fatto della ricerca a oltranza, scavo analitico e timbri asciutti la propria cifra stilistica.

Questa impresa inizia nel 1976 con l'incisione delle ultime Sonate . Perché partire dall'ultimo Beethoven?

«Mi sono gettato sulla musica che mi appassionava, dimenticando criteri di altro genere, di opportunità per esempio. L'entusiasmo per le ultime Sonate era così forte che ho voluto iniziare da queste».

Ma solo ora affronta l'integrale. Perché?

«Per il mio senso di responsabilità. Il confronto con il disco è più forte rispetto a quello con una sala da concerto. Il disco rimane».

Ed è per sempre, definitivo?

«Gli si vorrebbe attribuire un'identità definitiva, ma le singole interpretazioni sono il frutto di un momento ispirato».

A un uomo schivo come lei, perfezionista, non viene la tentazione di limitarsi alla sala di incisione e chiudere col pubblico?

«Il pubblico significa moltissimo. Mi sento in una posizione più naturale quando suono in una sala da concerto. Mi piace l'idea di poter suonare per qualcuno. Nella solitudine dello studio, la concentrazione può essere forte, ma richiede molto autoconvincimento».

Qual è, oggi, il valore del disco?

«È estremo. Conserva momenti, favorisce la conoscenza e alludo anzitutto a quella della musica contemporanea che può essere compresa solo dopo ripetuti ascolti».

Chi sono i due interpreti beethoveniani che più l'affascinano?

«Backhaus per la tecnica trascendentale, e Schnabel per fantasia, personalità inimitabile e senso improvvisatorio».

Estro, fantasia, inimitabilità che si stenta a ritrovare nei pianisti di ultima generazione, soprattutto d'Oriente. Lei crede nel fenomeno dei pianisti cinesi?

«Hanno una capacita fisica, scioltezza e abilita formidabili, però questo è un fatto fisico e meccanico. Diciamo che quello che più mi interessa è il fenomeno di appropriazione di una cultura diversa. Questo dovrebbe renderci fieri, e far pensare che forse la nostra musica ha un grado di maturazione superiore alla loro se risveglia questi interessi».

In gennaio se ne è andato Claudio Abbado, amico del cuore, cosa sente di dire?

«Che mi manca moltissimo.

È avvenuto tutto con rapidità. Era a Lucerna e stava molto male, gli organizzatori non l'avevano capito. Ci siamo visti l'ultima volta in dicembre, era lucido ma debole nel fisico. Avremmo dovuto suonare a Bologna e Vienna».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica