È emergenza automotive in Europa. Il rischio, ora, è che parta una sorta di effetto domino innescato dall'urgenza di tagliare, entro il 2026, costi per 10 miliardi da parte di Volkswagen. E a pagarne le conseguenze saranno i lavoratori di due fabbriche tedesche che vedono avvicinarsi lo spettro della chiusura. Intanto, le prime avvisaglie di un allargamento della crisi produttiva arrivano dal Belgio dopo che i sindacati hanno lanciato l'allarme sull'ipotesi di stop per lo stabilimento di Audi, dello stesso gruppo Volkswagen, a Bruxelles. Sì, proprio nella Capitale belga dove hanno sede le istituzioni Ue che hanno imposto un modello di transizione green i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti: l'industria automotive europea è in ginocchio e i big cinesi, dazi o non dazi, guadagnano terreno in continuazione. Solo in Belgio i posti che a maggio 2025 potrebbero saltare sono 2.600 su 3mila, senza contare le molte migliaia dell'indotto.
A temere per il lavoro, oltre a chi opera sulle linee di montaggio, sono infatti anche le imprese della componentistica. L'Italia, in questo ambito, è all'avanguardia e su 160mila occupati, secondo una recente proiezione, rischiano di perdere il posto in 40-50mila lavoratori.. Solo Volkswagen vale per l'indotto italiano tra 1,5 e 2 miliardi di euro, che salgono a 5 miliardi se si considera tutto il settore automotive tedesco.
Le avvisaglie di questa emergenza erano note da tempo, ma sono sempre state sottovalutate dai decisori di Bruxelles le cui mosse ideologiche hanno finito per condurre la situazione fino quasi al punto di non ritorno. Se crolla l'industria automotive, le conseguenze generali sarebbero devastanti. Nel 2008 l'Europa dominava il mercato con il suo 31% e oltre 20 milioni di veicoli prodotti. Ora è la Cina a detenere il 32% del mercato e a produrre 30 milioni di autoveicoli.
In Italia, secondo i dati Fiom-Cgil, dal 2014 a oggi sono 11.500 i lavoratori diretti usciti dalle fabbriche ora Stellantis, di cui 2.800 dagli enti centrali. E nel 2024 sono previste ulteriori 3.800 uscite incentivate, alle quali si aggiungono gli oltre 3mila addetti in somministrazione che risultano licenziati lo scorso giugno. Gli stabilimenti di Stellantis, la cui capacità già installata è di 1,5 milioni di vetture, sono in sofferenza: la produzione, tra gennaio e giugno, è scesa del 29,2% sul 2023. I sindacati chiedono con urgenza la convocazione delle parti a Palazzo Chigi.
Per Corrado Laforgia, vicepresidente di Federmeccanica, all'origine di questa crisi generale è «la non esistenza di un piano per la transizione, come non sono stati attivati tutti quegli strumenti indispensabili per la sua attuazione». «Ci vorrà del tempo - aggiunge - ma vanno pensati gli ammortizzatori sociali e, soprattutto, occorre generare i congrui fondi necessari. Il problema sono i tempi, mentre le soluzioni green per il settore sono diverse, anche se considero l'elettrico il mainstream. C'è chi propone una grande mobilitazione degli imprenditori: su questo sono contrario in quanto rischieremmo di passare come neo luddisti. Il nostro compito, invece, è quello di fare proposte». E Marco Stella, presidente del Gruppo componenti di Anfia: «In mancanza di una posizione percorribile si rischia il deserto industriale. Quanto sta accadendo è la certificazione che, dopo i tanti disastri, bisogna ritarare il tutto.
I siti italiani sono in forte difficoltà, la filiera automotive è stanca e spolpata dopo anni di deterioramento dei volumi e aumento dei tassi. Il nostro è un settore strategico e, come tale, dev'essere considerato attraverso gli interventi opportuni».
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