nostro inviato a Londra
Intanto se ne rimane sdraiato sul lettone. Poi ogni mezzora esce e parla con i giornalisti in questo lussuosissimo albergo del centro che nei decenni ha ospitato John Wayne, Greta Garbo o Gregory Peck (è il Savoy, dove preparano anche un cocktail da 5000 sterline, mancia esclusa). Di nuovo, Robbie Williams ha tre cose: una frezza biondiccia sulla fronte, un disco di (quasi) swing e il sistema nervoso. «Nel 2008 ho avuto un gigantesco esaurimento e pensavo di aver perso il potere del pop». In realtà l'aveva solo smarrito: è un istrione nato, e fin dai tempi dei Take That il suo punto di forza è stato di essere un grande intrattenitore, entertainer detto all'inglese. Poi ogni carriera, anche la sua, tocca momenti alti (gli anni '90) e raggiunge basse profondità (i Duemila): ora è in risalita. E il disco Swing both ways conferma che il vero mestiere di Robbie Williams, anni quasi 40, volto sempre più simile a quello di Elton John, è quello di divertire con la musica. «Mi sono detto: ehi, magari sono ancora bravo a farlo», spiega lui sgranando gli occhi.
Però, caro Robbie Williams, stavolta non sorprende: già dodici anni fa aveva registrato un disco swing.
«Mica posso pubblicare un disco pop all'anno: sarebbe noioso per me e per il mio pubblico».
Magari il suo pubblico se lo aspettava un disco così.
«Forse. Dopotutto è un tipo di musica cui ritorno sempre, anche perché mio padre ne ha accumulato un bel po' di dischi».
In verità lei ritorna allo swing quando è in crisi.
«Stavo degenerando. Ero quasi come Mike Tyson o George Foreman: quando guadagni tanti soldi è poi difficile tirare e prendere pugni sul ring».
Lo swing del ring.
«Con queste nuove canzoni volevo divertirmi e ridere dei luoghi comuni: se vesti così, sei troppo gay oppure lo sei troppo poco e via dicendo. E probabilmente il prossimo anno farò un tour nelle arene».
È tornato a comporre con Guy Chambers, autore dei suoi successi più grandi.
«Era destino. Il prossimo anno compirò quarant'anni, il mio countdown è già iniziato e quindi è giusto che io ritorni a collaborare con uno che conosce Robbie Williams meglio di me».
Conosce il Robbie Williams scatenato. Non quello diventato papà.
«In effetti mi sento un altro da quando sono padre di Theodora Rose (detta Teddy - ndr)».
Lo dicono tutti quando arriva un figlio.
«Io trascorrevo la vita senza preoccuparmi di me e della mia salute. Fumavo tre pacchetti di sigarette al giorno, bevevo un sacco di alcol. Poi è arrivata Teddy e ho capito che se c'è una ragione per stare al mondo è lei: così ho smesso di ubriacarmi e di fumare».
Nel frattempo però pubblica un disco con sei brani inediti (come il singolo Go gentle) e alcuni standard che sono tutto tranne che giovani. In più ci sono ospiti di gran lusso, da Michael Bublé a Lily Allen a Rufus Wainwright.
«Mi hanno detto tutti di sì, tranne Hugh Jackman, che aveva altri impegni».
In scaletta c'è il superclassico Minnie the Moocher di Cab Calloway.
«Quando lo canto dal vivo, la reazione del pubblico è forsennata».
Forse non è più abituato a melodie del genere: siamo nel tempo di Miley Cyrus.
«Vorrei diventare ancora più famoso di lei ma so che non succederà. Comunque viviamo un bel tempo per il pop: da Katy Perry a Lady Gaga a questa ragazzina neozelandese che si chiama Lorde: canta un brano, Royals, che mi sarebbe piaciuto scrivere».
È una fan dei Take That: a proposito, Robbie Williams tornerà con loro?
«Credo proprio di sì anche se non ci sono programmi già fissati».
Poi ormai è difficilissima toglierla da sua figlia.
«Il mio primo lavoro è farla felice. E se, tra vent'anni incontrasse uno pazzo come ero pazzo io, lo prenderei e gli spezzerei le gambe...»
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