I Rolling Stones: "Scorsese fa vedere quanto siamo vecchi"

La band e il regista presentano il documentario Shine a light. Mick Jagger: "Ne ha fatto un vero e proprio film" 

I Rolling Stones: "Scorsese fa vedere quanto siamo vecchi"

Berlino - Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Ron Wood, cioè i Rolling Stones in due concerti consecutivi a New York nel 2006, con Martin Scorsese a riprenderli per un documentario, Shine aA Light («Brilla una luce»), intitolato come una loro canzone e presentato ieri fuori concorso al Festival di Berlino. È la prima volta che un grosso festival si comincia con un documentario di questo tipo.

Stones e Scorsese sono nati nei primi anni Quaranta del secolo scorso. Le loro cinque esistenze fanno più di tre secoli, ma, nonostante la droga, sono ancora tutti vivi. Naturalmente i segni del tempo, specie sulle facce degli Stones, sono crudeli; invece i loro corpi son rimasti snelli. Guardandoli accanto a Christina Aguilera, che compare con loro in un brano, ci si chiede che cosa trovino ancora in loro le duemilacinquecento persone sui vent’anni riunitesi al teatro Beacon di New York, gente ben vestita, non «sconvolti», figli per nulla ribelli di una borghesia in grado di pagare il biglietto. Se gli Stones sopravvivono, non lo si direbbe della moltitudine che nel 1969 s’era riunita ad Altamont per il loro concerto all’origine di Gimme Shelter («Dammi asilo») dei fratelli Maysles e Charlotte Zwerin, documentario più memorabile di Shine a Light.

A sancire il retour à l'ordre degli Stones del 2006 rispetto a quelli del 1969 erano saliti sul palco del Beacon i Clinton: con la fondazione omonima, erano stati loro a voler il concerto (e il film, si potrebbe arguire). Li vediamo qui stringere le mani degli artisti, come se lui fosse ancora alle primarie e lei ci fosse già...

Nel salone delle conferenze stampa del Festival di Berlino, all’hotel Hyatt, ieri non c’erano però i compiacenti Clinton, ma quattrocento giornalisti. Gli Stones sono arrivati con mezz’ora di ritardo, vestiti dignitosamente, coerenti con la loro età più che con la loro storia. Scorsese era in giacca e cravatta. La prima domanda per Jagger è stata eloquente del clima: «Siete ricchi, questo film che cosa vi ha portato?». La sua risposta è stata: «In effetti possiamo pagarci tutti i pranzi e le cene che vogliamo. Ho accettato che Scorsese riprendesse il concerto perché sapevo che ne avrebbe tratto un vero e proprio film».

E Scorsese ha aggiunto: «Non c’era sceneggiatura. Gli Stones hanno fatto il loro spettacolo come credevano. Il resto è avvenuto in sala di montaggio: ognuno sul palco era seguito da una macchina da presa. Ho poi scelto le immagini migliori. Temevo solo che gli Stones cambiassero la scaletta, perché gli operatori sapevano quando avvicinarsi e allontanarsi da loro. Una variazione inattesa degli Stones avrebbe reso problematico il lavoro dei tecnici».

Scorsese era già autore di documentari musicali, ma solo The Last Waltz (1978) era dedicato a un concerto. Ora lavora a un altro film su un componente di un complesso d’epoca: George Harrison dei Beatles: «Di lui - dice - m’interessa la persona, che s’è confrontata con se stessa, combattuta, trovando infine la serenità. Io non ho un lato oscuro come Harrison; o, se ce l’ho, non lo cerco. Perciò considero straordinaria questa storia: nel suo lato oscuro posso cercare il mio. Come tutti i progetti biografici, sarà un lavoro di anni».

E qui il tempo passato

ha suscitato un’altra domanda severa per gli Stones: «Non siete vecchi per certe cose?». Ancora Jagger ha risposto: «È tremendo quanto lo siamo e il film di Scorsese lo rivela. Ma altrimenti che documentario sarebbe?».

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