I poeti sono sempre dispari, obliqui all'epoca. Osip Mandel'tam fu tanto distante dal proprio tempo, poco conforme ai toni sociali, da esserne divorato. Era il più debole; fu l'agnello sacrificale dell'era sovietica. Iosif Brodskij, ritirando il Nobel per la Letteratura, lo ricorda tra le «ombre che mi turbano di continuo». Capì che «era l'immensa intensità del suo lirismo a isolare Mandel'tam da tutti i contemporanei e a fare di lui un orfano della sua epoca».
Nato a Varsavia nel gennaio del 1891, cresciuto a San Pietroburgo, sodale di Anna Achmatova, fustigato e ignorato, Mandel'tam è l'amuleto di questi tempi, impoetici: dal 2017 sono uscite traduzioni a manciate, grazie soprattutto a Giometti & Antonello (che ha pubblicato i Quaderni di Voronez, L'opera in versi, l'Epistolario) e ad Adelphi (che per la cura di Serena Vitale ha stampato Quasi leggera morte e, quest'anno, la Conversazione su Dante). Arrestato più volte, sfortunato, irascibile e ingenuo, Mandel'tam muore in un campo di transito, a Vladivostok, due giorni dopo il Natale del 1938. Era stato condannato a cinque anni nei gulag con l'accusa consueta: «attività controrivoluzionaria».
La pia leggenda narra che il poeta addolcisse lo strazio dei compagni di prigionia recitando le sue stravaganti traduzioni da Petrarca. «Tutto l'incanto del mondo/ non dura più di un battito di ciglia», dice una di queste traduzioni, accolte nei Quaderni di Mosca ora editi da Einaudi per la cura di Pina Napolitano e di Raissa Raskina (pagg. XLVII+286, euro 16,50). Pina Napolitano, che ho interpellato, alterna l'attività da russista - ha tradotto anche i Taccuini di Marina Cvetaeva - a quella concertistica: si esibisce in tutto il mondo, interpretando Arnold Schönberg, Alban Berg, Brahms. Nei Quaderni di Mosca è raccolta anche la fatidica poesia diretta a Stalin, «il montanaro del Cremlino» dalle «tozze dita come vermi grasse» e «gli occhioni da blatta». Nell'ultima lettera inviata a Boris Pasternak, il poeta lo implora: «che voi vi prendiate cura della vita, e con essa di me, che non vi merito». Era un tempo in cui le lettere si scrivevano in segreto e le poesie venivano nascoste nella federa dei cuscini. Sapevano essere grati, i poeti, sapevano risorgere, rude era la loro innocenza.
In che contesto nascono i Quaderni di Mosca?
«I Quaderni di Mosca rappresentano per Mandel'tam l'inizio di una nuova stagione creativa, che si apre nel 1930 e segue un silenzio lirico di cinque anni. È l'inizio di un nuovo modo di scrivere, di una nuova poetica; il tema della realtà contemporanea entra prepotentemente nei versi, insieme a quello della vita quotidiana, mescolandosi con i sempre vivi temi della cultura, della letteratura, delle lingue (le traduzioni, libere versioni da Petrarca, sono di questo periodo), mentre vengono sperimentate nuove forme metriche e nuove combinazioni di registri stilistici, insieme a una accresciuta varietà lessicale. È come se, mentre la realtà esterna riduceva sempre più gli spazi di libertà (ricordiamo l'ingiusta accusa di plagio subita da Mandel'tam nel 1928, la scusa con cui si scatenò nei suoi confronti una campagna diffamatoria, mentre si entrava nell'epoca più buia dello stalinismo, con la collettivizzazione forzata e l'inizio delle epurazioni), la poesia trovasse forme sempre più libere e non convenzionali per esprimersi. Il primo Mandel'tam è invece un poeta più classicheggiante e controllato, che mostra una certa reticenza a parlare di sé e del presente».
A dire di Iosif Brodskij, Mandel'tam è il cuore di cristallo dell'epopea sovietica, il poeta che tutto sopporta e più di tutti subisce, da tutti abbandonato, eroe di una individualità accanita, ostile al tempo. Ritiene corretta questa analisi?
«Si trattò, nelle parole di Roman Jakobson, di una intera generazione che aveva dissipato i suoi poeti. Pensiamo a Majakovskij, Esenin, Cvetaeva, e prima di loro a Gumilev. La splendida fioritura poetica della cosiddetta Età d'Argento coincise con un momento buio della storia. Mandel'tam non si uccise (ma sappiamo che il suicidio era stato più volte considerato da lui e dalla moglie): in questo senso sopportò a lungo, fin quando non fu arrestato e morì in un campo di transito».
Perché Paul Celan è tanto attratto da Mandel'tam? Che cosa vede in lui?
«A Paul Celan dobbiamo la prima traduzione in volume di poesie mandel'tamiane in Occidente, traduzioni che egli ritiene non meno importanti delle proprie poesie originali. Mandel'tam diviene per lui, nelle sue parole, una sorta di secondo io. Sicuramente si sentiva accomunato a Mandel'tam da alcuni elementi biografici: entrambi ebrei, Mandel'tam morì deportato, come i genitori di Celan, e, impressionante coincidenza, entrambi subirono un'ingiusta accusa di plagio, e una seguente campagna diffamatoria. Quindi Celan sente a sé vicina la figura dell'outsider, del perseguitato. Ma altrettanto sicuramente furono i temi ad attrarlo - la parola e il silenzio, il secolo e la contemporaneità - e i toni - la solenne pacatezza, una certa reticenza, la concisione, il modo di manipolare la lingua».
Le chiedo di ritagliare un distico, un verso, che a suo avviso distinguono la poesia di Mandel'tam, esemplari, anche, del suo particolare lavoro di traduzione.
«Non credo si possa caratterizzare la poesia di Mandel'tam, così varia e ricca, con un solo gruppo di versi.
Posso dire che penso spesso a questi versi che parlano del rapporto con le lingue straniere, e della fondamentale impossibilità di impadronirsene: Non indurre in tentazione idiomi altrui, cerca invece di scordarli:/ non ti sarà dato comunque mordere il vetro con i denti. A volte credo che dovrei forse farne un insegnamento».
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