Il rock è morto, viva il rap. I maudit non hanno retto alla crisi e l'hip hop vince nelle classifiche. Chi crede che il merito sia delle abilità di Fabbri Fibra in fatto di marketing, ha il dovere di ascoltare Radici, di Kento & The Vodoo Brothers, per capire il senso del rap. Tutti gli altri devono ascoltarlo perché è una goduria per qualsiasi orecchio. E perché è mastodontico, innamorato e serio, come il suo autore, che viene dalle Posse.
Francesco Kento Carlo viene da Reggio Calabria, ha 38 anni, suona da quando ne aveva 20 ed era uno studente fuorisede non rammollito dalla «Grande Bellezza» romana, perché forte di quella dello Ionio. Ha sfornato 9 dischi scrivendoli sui taccuini, come fanno i poeti. Quando ha iniziato, il rap in Italia era un fenomeno di quartiere. Adesso è diventato il solo genere capace di far ballare su significati precisi. C'era bisogno di raccontare la storia di questo passaggio, trasformandola non in un sussidiario, ma in una testimonianza. E lui lo ha fatto. Questo è Radici: l'esegesi di un genere, la risposta a una necessità di chiarezza, la mappatura di un'identità non barattabile.
Lezione numero uno: il rap «nasce in America, ma non è dell'America». I comandamenti per suonarlo: amare la musica e prenderla sul serio anche se non dà da vivere; studiare le parole; conoscere il passato, rispettarlo e poi mandarlo in pensione. «Contesta ogni elemento, anche il rap di Kento», canta Francesco in mp38, dichiarando di rivolgersi a «chi inizia a scrivere».
Non si tratta di un testamento e nemmeno di un monito: è l'insegnamento di ruolo.
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