L'Academy finge di cambiare, ma non è così

L'Academy finge di cambiare, ma non è così

Questa volta, non si sono limitati ai classici discorsi anti Trump (a onor del vero mai così ridotti al minimo sindacale come in questa edizione). Hanno fatto molto di più, andando a premiare, prima volta nella quasi centenaria storia degli Oscar, una pellicola non in lingua inglese (il francese The Artist, trionfatore nel 2012, era muto), come miglior film. La vittoria del coreano Parasite, infatti, lungometraggio che incarna molti dei valori democratici, come il riscatto degli ultimi e la denuncia di una società classista e separata, ha colto tutti di sorpresa, diventando lo strumento di propaganda migliore da cavalcare sui temi dell'inclusione e della tolleranza del diverso, in vista delle prossime presidenziali Usa. Come a dire: «Avete visto? Dagli stranieri abbiamo da imparare e lasciarli fuori, costruendo muri, significa privarci del loro talento». Meglio, insomma, di qualsiasi speech celebrativo. Anche se, a ben vedere, in un'annata che dal punto di vista artistico aveva regalato poco o niente, è pure un pesante autogol della stessa industria hollywoodiana. Premiando Parasite, non solo con la statuetta del film più bello, ma anche come regia e sceneggiatura (e film straniero), è stato come ammettere che nelle categorie creative più importanti, per un anno, l'Asia abbia insegnato cinema ai soloni americani. Così come il parlare a nuora perché suocera intenda. Non si spiega, altrimenti, l'affronto di candidare Scorsese a dieci statuette per il pompato The Irishman e lasciarlo a bocca asciutta davanti al pluripremiato outsider Bong Joon-ho. Un chiaro messaggio mandato al vecchio maestro, reo di essere passato a Netflix. Anche perché, ad onor del vero, stilisticamente, cosa c'era in concorso di così clamoroso? Non certo il superfavorito della vigilia, 1917, di Sam Mendes, fatto passare, in maniera scorretta, per un film realizzato interamente in piano sequenza; cosa non vera (gli artifici digitali sono evidenti) e, difatti, sonoramente bocciato dall'Academy. Il successo dell'intelligente Parasite è anche un modo per dire basta alle produzioni da «pilota automatico», ai sequel senza senso, ai blockbuster fumettistici, ai biopic mirati, allo streaming. Gli unici tre film americani degni della statuetta, ovvero Joker (che ha vinto con Joaquin Phoenix, meritatamente, come miglior attore), il tarantiniano C'era una volta a...Hollywood (Brad Pitt, attore non protagonista) e il capolavoro Richard Jewell (ignorato perché diretto da quel repubblicano di Clint), non erano così forti per farsi sfuggire l'occasione, con Parasite, di dare un segnale politico agli Usa.

E mettiamoci pure la vittoria, nei documentari, del «lefty» American Factory, primo titolo della nuova casa di produzione degli Obama (ai danni del più bello e commovente Alla mia piccola Sama), per capire come la statuetta a Parasite sembrerebbe aver cambiato tutto, mentre, in realtà, come canta Errol Kennedy «It's just an illusion».

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