Lewis, penna&pennello contro la società di massa

Tradotti in Italia i saggi critici dello scrittore e pittore inglese. Pagine insolenti e geniali su Faulkner, Eliot, Woolf, Joyce...

Lewis, penna&pennello contro la società di massa

Men Whitout Art, ossia Uomini senz'arte (Neri Pozza, pagg. 208, euro 22; traduzione di Aridea Fezzi Price), si intitolava la raccolta di saggi di critica letteraria che Wyndham Lewis pubblicò all'inizio degli anni Trenta. Oggetto del libro erano quattro scrittori rappresentativi al massimo di ciò che allora, nella poesia come nella narrativa, veniva indicato come modernismo: Ernest Hemingway, William Faulkner, Virginia Woolf, T.S. Eliot. Al «modernista mancante», James Joyce, qualche anno prima Lewis aveva dedicato un intero capitolo del suo Time and Western Man, significativamente intitolato «Un'analisi della mente di James Joyce», capitolo che in questa edizione italiana di Uomini senz'arte viene ora aggiunto come necessaria introduzione e insieme complemento.

Lewis era stato, alla vigilia della Prima guerra mondiale, il massimo esponente dell'avanguardia artistica britannica: aveva fondato il Vorticismo, aveva scritto un romanzo, Tarr, in controtendenza rispetto al realismo letterario egemone nel suo Paese, come pittore aveva cercato una dimensione artistica dove lo spazio, e quindi la linea, il segno, la nettezza visiva, la vincessero sul tempo, sia passato sia futuro, e quindi sulla tradizione e la natura da un lato, sul progresso e la civiltà delle macchine dall'altro. Lo scoppio del conflitto e i quattro lunghi anni che era durato avevano spazzato via quel segno di rinnovamento, e per tutti gli anni Venti Lewis si era ritrovato a nuotare controcorrente rispetto a una società di massa che intanto si era venuta configurando, rispetto alle mode artistico-letterarie che intanto si erano venute cristallizzando. The Enemy, «Il Nemico», era stata la rivista di cui era l'unico nonché solitario estensore, e dove aveva messo in fila, per quanto in maniera disordinata, tutti i perché legati al rifiuto di come la modernità era andata affermandosi.

Con l'eccezione di Faulkner, tutti gli altri scrittori esaminati in Uomini senz'arte avevano avuto con Lewis rapporti di prima mano. Appartenevano più o meno alla stessa generazione, avevano condiviso con lui qualche «nume tutelare», Ezra Pound per esempio, per ciò che riguardava Hemingway, Joyce e Eliot, Gertrude Stein, per quanto riguardava Hemingway, oppure l'odiato «gruppo di Bloomsbury», è il caso della Woolf, di cui lo stesso Lewis era stato per un attimo sodale e poi feroce avversario, un'inimicizia altrettanto ferocemente ricambiata.

Dico questo per sfatare l'impressione che i giudizi di Lewis fossero superficiali e/o di seconda mano: erano, al contrario, fondati e diretti perché in alcuni casi, Joyce per esempio, c'era stato un esordio letterario in contemporanea e un essersi a lungo annusati e letti prima di conoscersi de visu; in altri Eliot, per esempio, erano il risultato di lunghe frequentazioni, in tutti c'era la comune appartenenza alla stessa cerchia di artisti creatori in cerca di uno stile e di un linguaggio propri. La critica letteraria di Lewis nei loro confronti è dunque una critica dall'interno, fatta da uno che conosce i «fondamentali», il mestiere, insomma. Di passata, restando per un attimo su Pound e sulla Stein, pochi come Lewis hanno colto nel «tecnicismo» poundiano e nella sua «fatale esuberanza democratica» la chiave di tanti suoi abbagli critici: «Vorrebbe davvero vedere un mondo pieno di Danti. Insegnerebbe a chiunque a essere Dante- tecnicamente» . E pochi come lui hanno colto nel balbettio steiniano l'essere in fondo il riflettore e non l'interprete di un'epoca, la riproduzione dell'infantilismo della società di massa e la sua trasformazione in epica

Tornando un attimo a Faulkner, con i suoi «personaggi caricati a molla», è esemplare come Lewis lo inquadri con tocchi rapidissimi: «I suoi romanzi sono, a rigore, ospedali. Il destino incombe pesantemente su ogni figura che vive in questa soffocante atmosfera fatta di uccellini, magnolie, lucciole e querce (per non parlare delle emanazioni della terra oscura e invariabilmente viscida. E la forma che assume questo destino è la razza». E ancora: più che un autore tragico, «a me Faulkner sembra melodrammatico, e di netto. Tutti i suoi cieli sono neri come l'inchiostro. Con lui la coincidenza, quella che egli chiamerebbe fato, non fa tanti complimenti».

Il cuore di Uomini senz'arte è, giudizio personale, va da sé, nelle pagine che riguardano Joyce e Hemingway. Lo è perché ha a che fare con due stili antitetici, il «flusso di coscienza» del primo, il realismo scabro intessuto di dialoghi del secondo, e ciò che, come dire, ideologicamente, sta loro dietro. Sotto questo profilo, gli altri due saggi relativi a Eliot e alla Woolf sono meno interessanti perché più circoscritti tecnicamente. Al poeta di La terra desolata, in fondo Lewis rimprovera soprattutto l'incoerenza critica. Come scrive nella sua introduzione Aridea Fezzi Price (che si è altresì felicemente cimentata nell'impresa di tradurre la complessa lingua di Lewis, erudita, eppure colloquiale, piena di anacoluti e di paradossi, spesso e volentieri divagante), il suo obiettivo è dimostrare che Eliot «sosteneva contemporaneamente punti di vista radicalmente opposti: romantici e classici, democratici e conservatori, umanistici e confessionali, impersonali e personali, cattolici e protestanti», un «relativismo sfrenato» , insomma.

Squisitamente inglese è il saggio sulla Woolf, incentrato com'è sulla polemica antirealista di quest'ultima e della «combriccola d Bloomsbury» che agli occhi di Lewis altro non è che fare dei «graziosi pezzi da salotto»: «Ogni cosa che sia al di sopra del livello da salotto è ciò che a questa gente piace di meno e si dà pena di reprimere». L'antirealismo della Woolf in nome del romanzo psicologico borghese è del resto provinciale nel suo accusare i «materialisti inglesi» del suo tempo, i Wells, i Galsworthy, i Bennett, di non aver saputo ritrarre la realtà dal suo interno e quindi di non aver permesso il fiorire di una letteratura degna di questo nome, come se «al tempo in questione Flaubert, Maupassant, Dostoevskij, Turgenev, Tolstoi ecc. ecc. ecc. ecc. fossero del tutto inaccessibili a questa nuova smarrita aspirante scrittrice georgiana», ovvero la Woolf, «come se lei, Bennett, Wells e Galsworthy fossero state le uniche persone al mondo a quell'epoca e non ci fossero altri libri al di fuori dei loro e nessun'altra terra se non l'Inghilterra».

Joyce e Hemingway, dunque. Del primo, considerato in seguito lo scrittore d'avanguardia per eccellenza, Lewis sottolinea da un lato il suo essere l'autore di una gigantesca nature morte, ovvero il sipario calato in ritardo sulla società vittoriana, un monumento «a mo' di una diarrea da record». L'Ulisse è il romantico canto del cigno dell'artista creatore ottocentesco che si rifiuta di affrontare l'assurdità del nuovo secolo e che nel creare non si preoccupa «di quello che scrive o dell'idea o visione del mondo che esprime. È solo un arnese, uno strumento, insomma».

Quanto al secondo, il famoso vitalismo hemingwayano, il suo anti-intellettualismo, quel misto di stoicismo brutale e di estetica del coraggio, altro non è che «la voce della gente, delle masse che sono carne da cannone, la mandria placidamente ruminante fuori del mattatoio, quelli cui le cose accadono» Il fatto che quella prosa, aggiunge Lewis, sia considerata la più consona per descrivere quel tempo storico e la civiltà che esso esprime, significa che «stiamo dicendo qualcosa di veramente definitivo su quella civiltà». Che il mondo si avviasse a divenire un gigantesco scannatoio, Hemingway lo aveva colto a livello descrittivo, ma senza rendersi conto di quanto tutto ciò significasse. Lewis invece ne era perfettamente consapevole.

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