Una lezione lunga 50 anni: su vita e fede non si discute

di Rino Cammilleri

Le pagine qui riportate sono, certo, spiazzanti, secondo lo stile di Biffi, ma di intrigante-inquietante c'è altro, e fin dall'inizio. Nel 1962 era un semplice parroco, ma già in possesso di una delle intelligenze più acute della Chiesa. Nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II si accorse che il richiamo sarcastico ai «profeti di sventura» suscitava qualche perplessità. È vero, «la gente non ama i guastafeste; preferisce chi promette tempi felici», ma Biffi fa presente che «Gesù stesso, a leggere il capitolo 24 del Vangelo di Matteo, andrebbe annoverato tra i profeti di sventura», e che «a proclamare di solito l'imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti». Nel Vangelo, le notizie di futuri successi e di prossime gioie non riguardano di norma l'esistenza di quaggiù, bensì il «Regno dei Cieli».

Altro slogan dell'epoca, rimasto da allora come regola aurea del «dialogo», è: «bisogna guardare a ciò che unisce e non a ciò che divide». L'attuale pontificato lo mette in pratica, e alla grande, nel rapporto con i protestanti, arrivando a celebrare il cinquecentesimo di Lutero in un francobollo commemorativo vaticano. Dice Biffi che si tratta di un principio comportamentale di evidente assennatezza, sì, ma se si tratta di risolvere beghe spicciole di condominio. «Ma diventa assurdo e disastroso nelle sue conseguenze se lo si applica nei grandi temi dell'esistenza e particolarmente nella problematica religiosa». Sì, perché «il Signore Gesù ha detto di sé, ma è una delle sue parole che siamo inclini a censurare, Io sono venuto a portare la divisione (Lc 12,51)».

Ancora uno slogan: «Bisogna distinguere tra l'errore e l'errante». Troppo giusto. Peccato che l'«errore» non esista senza gli «erranti», e non si può far fronte a quello senza contrastare questi. Tutto ciò a Biffi era chiaro fin dal 1962.

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