Maestro e seduttore "fino all'ultimo respiro"

Dandy, demagogo, ribelle: il regista che inventò la Nouvelle Vague. Cannes era il suo regno

Maestro e seduttore "fino all'ultimo respiro"

L'ultimo omaggio glielo aveva fatto, ancora pochi giorni fa, la Settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia presentando fuori concorso Godard seul le Cinéma, un documentario di Cyril Leuthy che era il compendio di una vita artistica prestigiosa e insieme caotica, e di una vita privata sempre più solipsistica, incapace di un contatto che non fosse attraverso la macchina da presa: «Faccio cinema per fare conoscenze. Finito il film torno a essere solo». La chiave di questa sua misoginia/misantropia da un lato, di questa stanchezza del vivere contraddetta però da una frenesia del fare (Le livre d'image, Palma d'oro speciale a Cannes, è del 2018, ultimo di una filmografia sterminata) è iscritta in due frasi che non a caso giganteggiavano in quell'À bout de souffle, Fino all'ultimo respiro, appunto, con cui tutto per lui aveva avuto inizio: «Il ruolo della donna è un ruolo importante se la donna è affascinante e se ha un vestito a righe e gli occhiali da sole». «Il fine dell'uomo è divenire immortale... E poi morire». Ha avuto donne e/o mogli molto belle Godard, e sempre e comunque, fino all'ultima, Anne Marie Mieville, sue complici nel fare del cinema il motore immobile della sua esistenza; è arrivato a superare i novant'anni, il che è un po' una prova generale dell'immortalità. Non a caso se n'è andato di sua spontanea volontà. Va detto che con Godard, con l'uomo Godard, non ci si annoiava mai, istrione e filosofo, dandy e demagogo, ciarlatano e seduttore. «Vi dico che non sono io il regista del mio film!». «Toglietegli il sonoro, è il film è migliore. Ascoltatelo senza vederlo e sarà ancora meglio». «I film sono di chi li gira. Nessuno ha il diritto di proiettarli contro la volontà del suo autore»... Sono tutte frasi che recano il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Del resto, aveva inventato la Nouvelle Vague ancor prima di finire dietro una macchina da presa, quando era solo un critico dei Cahiers du Cinéma. Il contratto per À bout de souffle, il film con cui esordì, lo firmò sul tovagliolo di un ristorante a Cannes, lo stesso anno che il suo allora amico Truffaut sbancava il Festival al suono dei Quattrocento colpi. Era il 1959, l'anno dopo era il suo il film-manifesto della nuova modernità. Da allora Godard resterà sino alla fine il miglior biglietto di presentazione di una rassegna che faceva del cinema la propria ragion d'essere. «Al Festival sono disposto ad arrivare sino alla morte. Ma non oltre». Il paradosso Godard sta anche in questo: ribelle eppure con le spalle coperte, un po' intellettuale di destra per quelli di sinistra, e viceversa, anarchico e bon vivant, esibizionista sempre. Occhiali scuri, vestiti su misura e sigarette Boyard nel suo primo periodo; occhiali chiari, sigaro da produttore, tweed e barba lunga nel secondo; un patriarca che se ne frega di come veste, mal rasato e bofonchiante in quello che è stato il suo terzo e alla fine ultimo periodo. Dopo À bout de souffle, Le petit soldat, Pierrot le fou, Band à part, Le Mépris, di lui si cominciarono a perdere le tracce. Per Le Mépris, tratto dal Il disprezzo di Moravia e dove Brigitte Bardot era l'immagine più perfetta, nuda e disarmata, della divinità femminile, e dove Jack Palance recitava in inglese, Fritz Lang in tedesco, Michel Piccoli in francese, Carlo Ponti, che era il produttore, decise di tagliare la testa al toro doppiando tutti. Il risultato fu che l'attrice che nel film faceva l'interprete, traduceva in italiano quello che loro, per volontà superiore della produzione, dicevano nella stessa lingua, il film involontariamente più godardiano mai visto. Je vous salue, Marie, è del 1985. Prima c'erano stati Prénom Carmen e Sauve qui peut (la vie), per non parlare dell'imbarazzante western maoista Vent de l'Est, firmato con il nome del collettivo Dziga Vertov, o di Ici et ailleurs, a metà degli anni Settanta, sui campi di addestramento dei feddayn. Fu per eccellenza il suo periodo più gauchiste («il più coglione degli svizzeri pro-cinesi» scrissero allora gli studenti sui muri della Sorbona e l'ultima petizione, pochi anni fa, in favore dei terroristi italiani espatriati in Francia risente ancora delle passioni di quel tempo...): difficile sostenere che sia stato il suo periodo migliore, difficile sostenere che dopo ci sia stato altro, se non un'incessante sperimentazione dove l'immagine elettronica anticipava di almeno un ventennio quella che sarà l'idea stessa di cinema digitale, se non l'idea di cercare nell'immagine pittorica un sostituto di quella puramente visiva... Tutto questo aiuta a spiegare perché Cannes sia comunque restato sempre e comunque il suo regno, La Palma d'oro speciale del già citato Livre d'image e soprattutto, ancora nel 2014, il Premio della Giuria per Adieu au langage. Del resto, un titolo come quest'ultimo permetteva tutte le speranze. Nel film ci sono un uomo e una donna che si incontrano, si amano, litigano, un cane che erra fra città e campagna, le stagioni che passano, loro che si ritrovano, cane compreso, si riparte da capo e la metafora è che finirà tutto in un abbaiare e in grida infantili. Godard sembrava dare con questo film il suo addio al mondo: «Siete pieni di gusto della vita.

Io sono qui per dirvi di no e per morire». Non era vero e infatti poi puntuale è arrivato Livre d'image. Adesso si sono spente definitivamente le luci, la musica, come la recita è finita, e la sua resta comunque nell'insieme una magnifica serata.

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