"Per me la vera scrittura è l'arte del non dire. Lo insegna Hemingway"

Il trionfatore del Premio Strega (90 punti di distacco): "Sento forte la responsabilità di aver vinto"

"Per me la vera scrittura è l'arte del non dire. Lo insegna Hemingway"

Spaesato e incantato, proprio come uno che da una baita sia piombato nella capitale, in una sera di luglio, senza sapere bene perché. È lui, il milanese Paolo Cognetti, classe 1978, autore di Le otto montagne (Einaudi) a portarsi a casa la fascetta del Premio Strega 2017, con uno scarto imbarazzante su Teresa Ciabatti con La più amata (Mondadori, 119 voti), Wanda Marasco e La compagnia delle anime finte (Neri Pozza, 87 voti), Matteo Nucci ed È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie, 79 voti) e Alberto Rollo che con Un'educazione milanese (Manni) ha preso 52 delle 660 preferenze della giuria «aumentata». Dopo le votazioni della cinquina, il vantaggio di Cognetti si era fatto subito consistente, senza testa a testa o polemiche: si sapeva che il liquore al Ninfeo di Villa Giulia lo avrebbe bevuto lui. E ora arriva pure la notizia della vendita dei diritti del romanzo, comprati da Wildside: la storia delle estati del ragazzo di città Pietro, e dei suoi genitori, e del pastore Bruno, e della loro formazione a Grana, ai piedi del Monte Rosa, diventerà probabilmente un film, coprodotto all'estero.

Doppi complimenti: lei è ancora un giovane scrittore ma la sua storia con lo Strega non è nuova...

«Ero stato in dozzina con Sofia si veste sempre di nero e quindi avevo già vissuto questo Premio insieme a un piccolo editore come minimum fax, con cui non c'erano speranze di vittoria, ma solo di andare più avanti possibile e di avere un po' di visibilità. Stavolta è stato diverso: il grande editore ovviamente vuole vincere».

Anche lei nel frattempo è cambiato.

«Mica tanto. Allora ero un ragazzino che si affacciava nel mondo dei grandi, mi sentivo un po' un intruso. Ma la verità è che mi ci sento ancora adesso. Questo non è il mio mondo, Roma non è il mio mondo, sono a disagio con tante persone intorno e al centro dell'attenzione. Anche se sento forte la responsabilità del premio».

Non se lo meritava?

«Certo che sì. È un premio non solo al libro, ma alla storia dello scrittore. Ci ho messo poco a scriverlo, due anni. Ma dietro ci sono tantissimi anni di costruzione del mio lavoro. Diciamo che certi giurati molto esigenti hanno guardato alla scrittura e hanno pensato: questo è uno scrittore vero, maturo, degno di questo nome».

Com'è uno scrittore vero?

«A me sembra di riuscire a capirlo in fretta, quando apro un libro. Dopo tre o quattro pagine. Gli scrittori hanno una specie di verità, di coscienza della lingua. Ogni frase viene da un pensiero e da una consapevolezza».

A lei da dove arriva questa capacità di costruzione della scrittura?

«In parte dalla letteratura americana, da quella tensione nella ricerca della parola giusta e nell'arte del togliere, del non dire, che ho studiato su Hemingway, Salinger e compagnia. Poi dal ritorno che ho avuto alla letteratura italiana quando dopo i trent'anni sono andato a vivere in montagna: Rigoni Stern, Primo Levi, Fenoglio, la Ginzburg. La generazione del dopoguerra, del Nord Italia. Quella lingua che è anche la mia lingua perché io sono del Nord e il loro amore per la letteratura americana, che è anche il mio».

La montagna è al centro del suo romanzo, ma anche della sua vita.

«È un'eredità: come succede nel libro, io sono figlio di veneti emigrati a Milano. Sono nato e cresciuto lì, ma non ci ho mai sentito le radici. Le sento invece in questa montagna della Valle d'Aosta dove passavo le estati da bambino. La mia montagna perduta, come quelle dei miei genitori erano le Dolomiti. Mi emoziono come ci si emoziona quando si torna a casa solo quando torno in montagna».

Il suo romanzo dà voce anche a una nostalgia più universale?

«Il legame con la terra, i boschi, le acque che ho raccontato hanno risvegliato la mancanza che ne abbiamo. Siamo tecnologici e iperconnessi, ma abbiamo un corpo e siamo fatti della stessa materia delle montagne. Dentro di noi, da qualche parte, ce ne ricordiamo».

Che progetti ha ora?

«Faccio un festival a Estoul. A fine luglio, nella foresta, in Val d'Aosta, ci sarà arte dal vivo, concerti e incontri con tanti scrittori. Ma anche con alpinisti, allevatori, agricoltori. Si chiamerà Il richiamo della foresta e spero che sia il primo di una lunga serie».

Vicino alla baita dove vive, quindi.

«Praticamente in casa. In una grande radura nel bosco dove vivo».

E poi?

«Poi un viaggio in Nepal, in autunno. Un lungo trekking di un mese in una regione remota, su cui forse poi scriverò qualcosa. Ma vediamo come va. E poi una storia nuova, che nella mia testa è iniziata prima che finissi Le otto montagne».

Dove scrive, di solito?

«Scrivo in montagna, perché a Milano non riesco tanto, non riesco più. All'inizio scrivo a mano, perché mi piace che il rapporto con la storia sia fisico, poi passo al computer. Sto a duemila metri e si sta bene solo pochi mesi all'anno, otto di gelo e quattro di freddo, come si dice. Ma per quando in estate ci sono giornate calde, ho trovato un tavolo in un rudere vicino alla mia baita e l'ho portato nel bosco. Gran parte de Le otto montagne l'ho scritto lì, nel bosco».

Ricorda il momento in cui ha capito di essere uno scrittore?

«Verso i 17 anni. Non è una di quelle aspirazioni che si possa tanto dichiarare. Per molto tempo è stato un segreto e una vergogna, un aspetto nascosto della mia vita.

Per potermelo permettere ho fatto il documentarista, il barista alla Scighera - un circolo culturale di Milano -, ho insegnato nei corsi di scrittura, ho fatto il cuoco in montagna. Ora però sono una persona che vive dei suoi libri, da due anni. E questa è una grande conquista. Più grande dello Strega».

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