"Il Mediterraneo è un paradiso minacciato da troppi serpenti"

L'agronomo premiato in Costa Smeralda: "L'ulivo è il centro della nostra cultura, dal mito alla religione"

"Il Mediterraneo è un paradiso minacciato da troppi serpenti"

Il mondo sarà salvato dagli agronomi. Dal greco: agròs («campo, campagna») e nòmos («legge, regola»). Occorre conoscere le leggi della terra e della natura, così come della cultura e della tecnica, per proteggere «ciò che vive»: bíos. Tutto il resto: la civiltà - e il suo specchio che è il paesaggio - la scienza, l'economia, le città viene dopo.

Se c'è una cosa che per Giuseppe Barbera, agronomo e docente di Colture arboree all'Università di Palermo, viene prima di tutto, è il ruolo dell'uomo nella natura, e viceversa. Per armonizzare il rapporto tra i quali occorrono, appunto, buone regole. Giuseppe Barbera nei suoi libri più belli e appassionati, dalla Breve storia degli alberi da lettura (Henry Beyle, 2015) a Il giardino del Mediterraneo (il Saggiatore, 2021) fino alla storia degli agrumi che sta scrivendo, trasmette una profonda comprensione delle infinite correlazioni fra natura e cultura. Scienza, umanesimo, la storia da Omero all'Antropocene, miti, boschi, acque, senso del sacro, ulivi, oleandro e melograni... È lui, siciliano, il vincitore del Premio «Cultura del Mediterraneo» Costa Smeralda, Sardegna. In fondo tutto il grande bacino compreso fra le terre emerse di Europa, Asia e Africa - con al centro l'Italia, mare nostrum è un'isola.

Professore: cos'è il Mediterraneo.

«Sono i millenni di piante e di civiltà agrarie che si incontrano, si incrociano, progrediscono. Per Fernand Braudel i confini del Mediterraneo sono segnati da una pianta che partecipa alla storia dell'uomo da almeno seimila anni: l'olivo. Non c'è altro modo di definire il Mediterraneo - né la geologia, né la politica - se non la presenza dell'olio selvatico e coltivato. Se guardiamo i quadri dei paesaggisti dell'800, a Napoli come a Palermo, ci sono agrumi che arrivano dall'Asia, il nespolo dal Giappone, l'eucalipto dall'Australia, la palma da datteri dall'Africa, il fico d'India dall'America Ma l'unica pianta sempre presente, nel corso dei secoli, è l'ulivo. Che Linneo, uno svedese, chiamò Olea europaea. È la pianta del Mediterraneo, dell'Europa, della nostra civiltà».

Lei ha paragonato la bellezza del paesaggio mediterraneo all'immagine del Paradiso terrestre. Viviamo nell'Eden?

«Il Paradiso terrestre è acqua, con quattro fiumi che lo attraversano, è un'eterna primavera, con frutteti in ogni dove Cosa ci ricorda? A me, il Mediterraneo, le cui terre sono per eccellenza quelle degli alberi da frutti, ricche di acque, che godono di un clima mite, una lunga estate da adesso fino a ottobre Il Paradiso è il giardino del Mediterraneo, uno spazio chiuso, irrigato, dove si colgono i frutti dagli alberi. Il giardino di Alcinoo, quello della dea Calipso, l'hortus romano, il giardino incantato di Armida...»

Tutto passa dal Mediterraneo.

«È un paesaggio che ha la propria identità nella diversità dei tre continenti che lo chiudono: l'Europa, l'Asia e l'Africa. Poi la Storia, dal '500, porta dentro l'America. Ed è qui, nell'intreccio fra cultura e colture, ossia tra la storia degli uomini e quella della natura che è anche quella dei libri e quella degli alberi, due parole che hanno la medesima origine, dal latino librum, la parte della corteccia interna dell'albero su cui l'uomo impara a scrivere - esplode la nostra percezione del paesaggio in cui viviamo. Omero, i pittori, i musicisti lungo i millenni hanno celebrato il Mediterraneo, fino a Sciascia o Tomasi di Lampedusa, per restare ai miei siciliani, o Calvino se vogliamo andare in Liguria La grandezza del Mediterraneo, dalla asprezza dannata delle aree interne della Basilicata o della Spagna fino alla mollezza lasciva dei giardini di agrumi freschi e profumati della Sicilia, sta nell'equilibrio fra la natura e la nostra storia individuale e collettiva. C'è tutto qui dentro: il mito, la storia, la letteratura, la religione...».

La religione?

«La religione è nata nei boschi. Il ramo d'oro dell'antropologo James Frazer, siamo nel 1890, ci dice che l'uomo primitivo a un certo punto si accorge che l'albero perde le foglie, poi però risorge in primavera, cresce fino a cento metri, ha radici profonde nel terreno Lì sorge il numinoso Ancora oggi se noi entriamo in un bosco, istintivamente abbassiamo la voce, siamo portati a riflettere: è come entrare in chiesa. Sentiamo che siamo in presenza di qualcosa che è più di noi. Cos'è questo se non il senso del sacro?».

Cosa minaccia oggi il paradiso del Mediterraneo?

«I cambiamenti climatici. Siamo un'area fortemente a rischio in termini di riduzione delle piogge e degli aumenti delle temperature. Ora: il Mediterraneo è sempre stato una terra di confine, di diversità, di scambi e di incontri tra nuove specie e nuove culture... E nel corso dei millenni l'area mediterranea ha già vissuto condizioni climatiche difficili, ma abbastanza controllabili dalle civiltà che lo hanno abitato. Oggi però i cambiamenti climatici, e ciò che ne consegue, migrazioni dai paesi più caldi e crisi alimentari, rischiano di fare del Mediterraneo non più un luogo di scambio, come è sempre stato, ma di esclusione. Non un luogo di accoglienza, ma di fuga. Governare il problema non è facile, ma la cosa peggiore è comportarsi come se il problema non ci fosse».

Le pale eoliche che punteggiano colline e coste del Mediterraneo sono una soluzione per l'energia che producono o un problema per il paesaggio che devastano?

«Domanda difficile. Non c'è una risposta tranchant. Da una parte bisogna aumentare le fonti di energia rinnovabili, dall'altra si devono salvare i valori culturali del paesaggio. Si può fare, senza furori ideologici né da una parte né dall'altra. Soprattutto pianificando, valutando i vari casi... Abbiamo avuto i paesaggi dell'agricoltura, tagliando i boschi, poi quelli del carbone, poi il petrolchimico, poi il nucleare... Ora è il momento delle energie pulite. Bene. Ma chiediamoci: quelle pale eoliche, vanno bene? Per quali ragioni sono lì? Si possono ricollocare diversamente? Io non amo la decrescita felice, io voglio progresso e sviluppo. In modo sobrio ed equilibrato».

Ora c'è la moda a considerare gli alberi simili a noi, con sensazioni e percezioni umane...

«Una moda, appunto. Ma così non rispettiamo la loro diversità. Gli alberi deve essere chiaro - sono altro da noi, non sono intelligenti, non hanno sentimenti, non sentono la musica. Dobbiamo semplicemente averne riguardo e lasciarli in pace. Certo: bisogna superare l'antropocentrismo. Ma nello stesso tempo bisogna evitare i rischi di quello che io chiamo neocolonialismo, cioè l'attribuire sentimenti alla natura e vedere le piante troppo simili a noi».

E questa storia di piantare migliaia di alberi ovunque?

«Ecco. Ormai sindaci e architetti credono di poter risolvere qualsiasi problema piantando alberi. Mi sembra un po' una scorciatoia. Una soluzione semplicistica e populista. Io sono felicissimo che si piantino nuovi alberi, ma non mi interessa quanti: 10, 20, centomila... Io voglio sapere quali specie di alberi, e chi li produce...

Lo sa che tutti i vivai italiani non basterebbero a supportare certe cifre? E poi: chi li cura? Piantare un nuovo albero è facile, farlo cresce è difficile. Lo sa chi ha un giardino, figuriamoci chi deve gestire un bosco».

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