«Il mio Metodo? Confondere con l'ironia»

L'attrice sul palco del Manzoni di Milano con Pasotti e Fassari

Enrico Groppali

È interessante incontrare un'attrice che alla vigilia di uno spettacolo che la vede protagonista s'interroga sull'ambiguità del reale che, secondo lei, rischia di spiazzare la verità di ciò che si vede in scena. «Solo nel teatro io ritrovo la verità», dice Fiorella Rubino. «Ma per fortuna stavolta sono alle prese con un testo comico e grottesco insieme». Si tratta del Metodo (dal 5 al 22 maggio al teatro Manzoni di Milano), autore Geordy Galceran uno scrittore catalano ancora poco noto in Italia.

Non è quindi superfluo chiederle di cosa tratti questo misterioso copione.

«In apparenza sembra tutto facile, ma in realtà, come accadde oggi in qualunque circostanza, il discorso è ben diverso. Perché all'interno di una multinazionale che vede come protagonisti tre uomini e una donna, che ambiscono a diventare manager, la selezione è spietata».

Cosa accade di preciso?

«Non si può prescindere dal fatto che si tratta a priori di una scelta ambigua. Perché i quattro candidati devono saper reggere situazioni amare e farsesche che mutano di volta in volta».

Un testo difficile, allora... Come mai l'ha scelto?

«Perché mi piacciono le sfide e l'idea di confrontarmi con un regista come Lorenzo Lavia e soprattutto con tre attori del calibro di Sergio Pasotti, Antonello Fassari e Gigio Alberti che navigano nell'ambiguità e la sovvertono con guizzi improvvisi quasi surreali mi mette di buonumore. Tanto che mi consentono di misurarmi con un personaggio che varia continuamente in una girandola di emozioni imprevedibili».

Una cosa che non ha mai affrontato prima?

«In effetti solo altre due volte mi è capitata una situazione simile. Una è stata nella Bugiarda di Diego Fabbri che è stato uno dei capolavori della grande Rossella Falk. Anche quella era una situazione dove regnava l'ambiguità».

Ma non era uno spettacolo comico dove si giocava con situazioni estreme?

«Certo, ma solo in apparenza. Perché se negli anni cinquanta tutto si giocava attorno al paradosso di una protagonista, fidanzata a un notabile del vaticano che finisce per sposare un giovane comunista, nel Metodo la situazione è ben diversa».

Come mai?

«Perché oggi è tutto cambiato e non c'è più nessuna certezza».

Un bell'impegno non c'è che dire.

«Solo in parte, perché anche con Albertazzi con cui ho lavorato a lungo regnavano le situazioni più indiavolate. Tanto per farle un esempio nella Governante di Brancati che si chiude con un suicidio la situazione è ingarbugliata, perché si afferma una cosa che subito viene smentita.

Come accadeva in quella canzone di Milly che allora era il mio credo dove si diceva che il falso diventava il vero e il bianco assumeva il cupo colore del nero».

Non c'è che dire, un bel tour de force. Come se l'è cavata? «Con l'ironia che non mi ha mai fatto difetto e che qui nel Metodo regna indisturbata confondendo tutti fino al gran finale che non posso rivelare».

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