È un poverocristo Gérard Lemoine, esercente della sala cinematografica Cinépal, nel comune francese di Palaiseau, dalle parti dell'Essonne. Dio solo sa com'è riuscito a sopravvivere, in questi mesi di pandemia, quando, di colpo, nessuno è uscito più di casa e lui non incassava una lira. Qualche filmetto di Totò, un po' di commediole per famiglie e la speranza di risollevarsi, ai primi di settembre, con i filmoni americani. Tirava avanti, insomma, Gérard, guardando ai blockbuster.
Così, quando la Disney ha annunciato che l'atteso Mulan non sarebbe più uscito al cinema, ma direttamente sulle piattaforme di casa Disney +, al non modico prezzo di 29,99 dollari (oltre all'abbonamento mensile di 6,99 dollari), Lemoine non ci ha visto più: ha preso una mazza da baseball e ha fatto a pezzi il cartonato che reclamizzava, all'ingresso della sua sala, lo strombazzato action movie per ragazzini. Te lo do io, Mulan. E il video dell'incollerito Gérard spaccatutto ha fatto il giro della Rete, riassumendo l'ira degli esercenti che, tra USA, Canada, Nuova Zelanda e Francia, aspettavano a gloria il kolossal internazionale, costato oltre 200 milioni di dollari e diretto da Niki Caro, regista neozelandese classe 1967, distintasi con La signora dello zoo di Varsavia, bel drammone di eroismo civile. Non a caso Variety, la Bibbia del cinema, a tal proposito scrive che si tratta di «un atto di scarsa solidarietà nei confronti degli esercenti del cinema». Però anche la Disney ha i suoi guai, con la chiusura e la riapertura dei parchi a tema: nell'ultimo quadrimestre ha perso 4,9 miliardi. Si salvi chi può.
Il «live action» più caro che mai, diretto da una regista, dal 4 settembre doveva ridare fiato alla collassata industria del cinema. E, a furia di rimandi, l'attesa era diventata un supplizio di Tantalo: Mulan doveva uscire il 20 marzo e poi, a causa del Covid, si erano registrate altre due dilazioni. Finché l'amministratore delegato di Disney, Bob Chapek, ha dato l'annuncio: bisogna fare la guerra ai giganti dello streaming, Netflix e Amazon. Magari si cercherà la solita formula mista, con l'uscita anche in qualche sala in Italia, ancora non è stata presa una decisione -, ma le parole di Chapek suonano chiare: «Dopo una serie di posticipazioni, siamo finalmente lieti di far vedere Mulan ai nostri iscritti. Stiamo osservando il titolo come una sorte di nuova opportunità per il business». Già, il business. È per questo che il remake, con attrici e attori in carne e ossa, sfoggia un cast completamente asiatico, a partire dalla protagonista, la star cinese Liu Yifei che interpreta Mulan. Ovvero la solita principessa guerriera, recentemente di moda, che scappa da un matrimonio combinato e arruola un suo esercito per salvare il proprio paese. E ci risiamo con la problematica contemporanea dell'emancipazione femminile, che non prevede maschietti nella sua agenda. Strano, però: se Liu Yifei fa tanto la femminista, in Mulan, tra spade, arti marziali e abolizione dell'uomo oppressore, com'è che poi si precipita a difendere, sui social, l'operato della polizia di Hong Kong, contro i dissidenti del regime cinese?
Tutto il mondo ha visto i manganellatori hongkonghesi, particolarmente brutali con le donne scese in piazza per protestare contro la Cina. E adesso, la propaganda di Liu su Weibo, una specie di Twitter cinese (in Cina, sono banditi Instagram, Twitter e FaceBook) che totalizza 66 milioni di abbonati, è l'arma di Stato, ma è anche un boomerang. Ai dissidenti e al mondo occidentale, piace poco quell'«Io sostengo la polizia di Hong Kong», accompagnato da un emoji con cuoricino e bicipite. Ed è partita la controffensiva: #BoycottMulan, ritwittato 69 milioni di volte. Intorno a Mulan, dunque, si gioca una partita anche politica.
Del resto, ha cominciato la star israeliana Gal
Gadot, muscolare Wonder Woman targata Warner, a schierarsi politicamente, sostenendo la polizia israeliana ai tempi del conflitto di Gaza. Noi volevamo soltanto andare al cinema e adesso ci toccano «endorsement» e divano.
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