«La lingua mi prude per il fumo, e il petto mi fa un po' male, ma è un dolore assolutamente sopportabile, come le altre volte»: è il dolore dell'incendio quello che William Vollmann descrive nel reportage che compila per la rivista Freeman's (pubblicata in Italia da Black Coffee, pagg. 250, euro 14; in uscita il 19 marzo), di cui riportiamo qui l'incipit. E il dolore è sempre prima di tutto fisico. È la rivista, creata da John Freeman, già direttore di Granta, a chiedergli di documentare uno dei più grandi incendi al mondo, il Carr, scoppiato il 23 luglio 2018. Proprio come si faceva sempre prima di internet, con lo spirito di un personaggio più che con quello di uno scrittore, lo sterminato Vollmann classe 1959, autore di Europe Central (Mondadori) e Afghanistan Picture Show (minimum fax) - parte. Senza sapere bene quel che troverà, accompagnato da un fotografo, motivandosi da solo, come si fa quando si sta per compiere l'ennesima follia per passione.
La descrizione della «stomachevole sofferenza» prodotta sull'uomo dal fuoco, l'immersione tra gli alberi grigio-blu sul punto di sciogliersi, il valico del confine tra quel grigio-blu e l'inferno di fumo che gli permette di parlare, e persino di scherzare, con le vittime di quel disastro, è il tributo di Vollmann al tema di questo numero di Freeman's, la California. Prima con l'insufficiente mascherina, poi con un respiratore più efficace, Vollmann supera la nausea, supera la razionalità ed entra in contatto con chi vive nella desolazione provocata dal regno delle fiamme. Il capo dei pompieri che rischia ogni giorno che il fuoco «gli faccia la festa»; un ragazzo di Redding senza fissa dimora che passa da un divano all'altro mentre fuori ci sono trentotto gradi da incendio e la vede dal suo punto di vista: «Per me sono dolosi. Credo che c'è un sacco di gente di merda che odia i senzatetto. Sarà stato qualcuno di noi ad appiccare il fuoco per rabbia, oppure uno che sapeva che si sarebbe diffuso per far fuori i senzatetto»; o ancora la poliziotta che gli vieta di proseguire oltre perché torna dall'aver guidato in mezzo alle fiamme: «Posso farle una foto?». «No».
Il tributo di Vollmann è uno dei quasi trenta, tutti eccellenti, dedicato allo Stato che pare avere la vocazione ad ospitare miti - Hollywood ma anche Charles Manson, il deserto del Mojave, Alcatraz, Yosemite, Disneyland - e che ha una storia più che mai contemporanea, visto che un quarto degli immigrati americani vive lì. C'è l'immagine degli anni Settanta scattata da Jennifer Egan che nel corto intitolato Figlio dei fiori ricorda come già a quattordici anni fosse consapevole che nel suo mondo hippy le sviste entusiaste fossero sempre dietro l'angolo: «A ripensarci mi chiedo se quel fervore che percepivo non fosse l'eco del ruggito della tecnologia, che stava prendendo rapidamente piede poco più a sud». E poi c'è Rachel Kushner che elenca tutti i veicoli che ha posseduto e «Quel particolarissimo mondo in cui le auto sono più iconiche delle persone»: «Se avessi un centinaio di migliaia di dollari da sperperare ora, stamattina che non ho comprerei una Pontiac gto Judge del 1969, come nuova. Ma non è davvero il mio stile. Quello che ho sempre desiderato è una gto del '67, con le sue linee eleganti da scatola di sigari».
E c'è la firma di Geoff Dyer su Finestre alte(rate), che distrugge uno dei tanti miti di cui sopra e racconta come mai non sia più divertente farsi le canne in California: «Amo ancora il tennis, solo non mi piace più la marijuana e in qualche modo non riesco nemmeno a ricordare bene il modo in cui lo sballo illuminava il mondo, svelando il bagliore nascosto delle cose».
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