Un nostalgico alle prese con un mondo senza cose

Superati i cinquant'anni, lo scrittore è spaesato: rimpiange un'epoca e le parole per raccontarla

Un nostalgico alle prese con un mondo senza cose

Un libro confuciano, questo Le parole senza le cose di Paolo Nori edito da Laterza? Non che mi piacciano molto i cinesi, anzi, e però dopo le prime pagine mi è venuto in mente proprio Confucio: «Se i concetti non sono giusti le opere non si compiono, perciò non si deve tollerare che le parole non siano in ordine». Nori, che lo voglia o no, con la sua molto condivisibile ossessione per un lessico sensato si dimostra un uomo d'ordine, un vero conservatore, e per certi dettagli un perfetto nostalgico. Sul telefono mobile usa la suoneria Nostalgy che riproduce il suono dei telefoni fissi del tempo che fu: «Tra la gente che conoscevo e che aveva la mia età, la suoneria più diffusa». L'età di Nori si chiama cinquant'anni, linea d'ombra fra le vere o presunte possibilità della giovinezza e la vera o presunta impotenza della senilità. Attraversata con una consapevolezza, per quanto espressa con l'inconfondibile e inevitabilmente comico parlato emiliano, quanto mai dolorosa: «I nostri figli dovranno fare da soli, noi non avremo nessuna autorità». Qui ho percepito addirittura Emanuele Severino: Le parole senza le cose è dunque un libro severiniano? In parte sì. Perché il filosofo bresciano reputa la tecnica sinonimo di nichilismo, siccome incessante distruzione del passato, e lo scrittore parmigiano si preoccupa quando scopre che i trentenni non sanno che cos'è, che cos'è stato, il duplex. Si capisce che avrebbe preferito vivere all'epoca in cui un cinquantenne veniva considerato alle soglie della saggezza, e non, come oggi, già sprofondato nel pozzo dell'obsolescenza. Rimpiange (rimpiange tantissimo Nori in questo libro) «un periodo dove le cose eran le cose, non come adesso, che non si capisce più niente». Rimpiange le cose al punto da stendere elenchi che sono lapidi del nostro modernariato sentimentale: i bicchieri infrangibili, le lucidatrici, i bigodini, il telefono a gettoni, la bici da cross con il sellino lungo, la Citrosodina, i grembiuli delle elementari, i cartoni animati di Telecapodistria, l'Ovomaltina, le cassette Basf, le Tdk, i pentoloni della marmellata, i cinema porno, lo stereotto, la mucca Carolina, l'austerity, i fustini salvaspazio, i vestiti da Zorro per Carnevale, il gelataio in bicicletta, le braghe corte, la spuma... Un libro proustiano, pertanto? No, direi piuttosto gucciniano, in riferimento al Dizionario delle cose perdute compilato dall'illustre cantautore, pure lui emiliano, e citato fra i punti di riferimento assieme a Mi ricordo di Georges Perec e a I remember di Joe Brainard. Guccini, nato nel 1940, cita anche cose scomparse prima che Nori, nato nel 1963, potesse averne piena contezza, ad esempio i cantastorie, i treni a vapore, i pennini, il prete (inteso come scaldino)... Eppure ventitré anni di differenza con l'andare del tempo sono sempre meno rilevanti: oggi l'abisso sembra spalancarsi fra chi ha aperto gli occhi sul mondo con Google e chi con la carta stampata, e non conta molto se quest'ultimo ha quarant'anni oppure ottanta.

Confuciano, severiniano, gucciniano, ma soprattutto, ovviamente, noriano, e quindi ambientato fra Parma e Bologna con qualche trasferta legata al mestiere di scrittore. A Novara, dove una presentazione davanti a undici o dodici persone gli fa pensare di essere ormai in parabola discendente. O a Milano dove trova una libreria senza libri, «la libreria Feltrinelli di Milano che si chiama RED. Che era praticamente un bar dove i libri servivano per fare atmosfera, erano sparsi un po' qua e là». La libreria senza libri è un classico tormentone noriano (si legga la descrizione della Feltrinelli di Parma a pagina 22) a cui si aggiunge la tabaccheria senza francobolli. Poche cose come entrare in una tabaccheria e sentirsi dire che i francobolli sono finiti lo fa sentire un «uomo del secolo scorso disorientato», un padre che sta consegnando a sua figlia un mondo che lui stesso non capisce più: «Un mondo dove io non so bene neanche dove andare a comprare i francobolli».

Nori lamenta che moltissime parole abbiano perso la cosa corrispondente ma pure che alcune cose non abbiano più una parola in grado di esprimerle con la precisione necessaria. Nonostante sia uno scrittore e perfino un traduttore quando deve designare la donna con cui vive resta senza parole, o, meglio, senza la parola giusta: «Io non avevo una parola, per identificarla, avrei potuto dire mia moglie ma non era mia moglie, non eravamo sposati, avrei potuto dire la mia compagna ma per me compagna, in dialetto parmigiano compagna voleva dire uguale, avrei potuto dire morosa solo che morosa, Ciai 52 anni ciai ancora la morosa?, avrei potuto dire fidanzata ma fidanzata suonava anche quello lì troppo giovane, io la chiamavo la mamma di mia figlia».

Stavolta un po' di colpa ce l'ha anche Nori (perché non si sposa?) ma tutto il resto del libro è la dolceamara espressione di un disagio inevitabile, quello di chi vede la propria lingua e i propri sentimenti andare più piano, molto più piano, del mondo nuovo.

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