C'è qualcosa che va anche al di là dei numeri - seppur impressionanti: 285 film e tre Oscar - nella storia del grande costumista raccontato in Orry Kelly: Tutte le donne che ho (s)vestito, documentario diretto da Gillian Armstrong che passa domani alle 16,55 su Studio Universal (Mediaset Premium) prima del film Un americano a Parigi per cui Orry George Kelly, nome d'arte e marchio di fabbrica Orry-Kelly, vinse la statuetta. C'è la meraviglia della Hollywood dell'età dell'oro, di volti che sono rimasti popolari e di altri all'epoca forse anche più popolari ma ora nell'oblio. C'è soprattutto, dietro la carriera di un artigiano che amava definirsi solamente «cuci orli», la storia di attori costruiti sui personaggi proprio come i suoi vestiti. Ma ci sono anche gli Stati Uniti, eterogenei, con la New York del 1926 dove Orry-Kelly approdò da Kiama, la sua città australiana vicino Sidney dov'era nato nel 1897 davanti all'Oceano «con l'orizzonte fonte di attrazione».
Lì conosce un tipo, Archibald Alexander Leach, che, come lui, veniva da un'altra città lontana di fronte al mare, l'inglese Bristol. Con lui, con quello che sarebbe diventato uno dei più grandi divi di Hollywood, Cary Grant, divide la vita in un appartamento al Village in «anni affamati di successo ma con noi spaventati a morte perché non avevamo niente se non le feste nella vasca piena di gin con i soldi di mamma». Con il futuro Cary Grant, «suo fidanzato» azzarda il documentario anche se l'attore ha sempre smentito e querelato chi metteva in dubbio la sua eterosessualità, Orry-Kelly, a cui da piccolo piaceva vestire le bambole e che non ha mai nascosto la sua omosessualità, iniziò pure un'attività commerciale abbastanza curiosa, la produzione di cravatte con i loro cognomi come marchio: Kelly-Leach. Poi arriva la crisi del '29 e due anni dopo i due si trasferiscono a Hollywood dove Archibald Leach, nonostante Orry-Kelly lo definisse «un attore mediocre», trova la sua strada nel passaggio dal muto al sonoro e viene lanciato come Cary Grant, «un altro Clark Gable». Ma i due dopo la «turbolenta conoscenza» non si frequentano più, Hollywood non è il Greenwich Village dove tutti erano aperti, soprattutto sessualmente, e Cary Grant faceva l'escort per le ricche signore. No, a Los Angeles c'è l'omofobia, la polizia fa le retate nei locali notturni, il famigerato Codice Hays indirizza le produzioni cinematografiche su cosa è moralmente accettabile e ovviamente qualsiasi accenno all'omosessualità è bandito. Cary Grant, fotografato in centinaia di scatti con l'attore Randolph Scott, viene costretto dalla Paramount a sposarsi, salvo poi tentare il suicidio, divorziarsi, risposarsi e così avanti fino a cinque.
«Dirsi gay era come essere comunisti» ricorda Jane Fonda amica di Orry-Kelly («Lui mi incoraggiava quando non credevo in me avendo un padre così importante») che però l'ha vestita in film non memorabili. Intanto il costumista approda alla Warner, partecipa a musical sontuosi come Quarantaduesima strada, veste dive come Barbara Stanwyck e soprattutto Bette Davis che, da brutto anatroccolo, diventa una splendida star grazie anche ai suoi abiti. Ma non sono mancati i salti mortali, per esempio per esaltare i suoi «seni grandi e rilassati», perché Bette Davis non voleva i ferretti: «Mi fanno venire il cancro!», gridava. Ma l'arte di Orry-Kelly traspare anche dal fatto che, pur lavorando in film in bianco e nero, riusciva a dare un look colorato senza colori, giocando sui contrasti tra bianco e nero e grigi. Ecco la meraviglia di Casablanca con i bianchi portati così bene da Ingrid Bergman e Humphrey Bogart ma anche, finalmente, il colore di Un americano a Parigi di Vincente Minnelli con il suo primo Oscar, Les Girls di George Cukor e il secondo Oscar e la vestizione dell'«antipatica» Betty Grable, l'attrice che i piloti disegnavano sui bombardieri B-52. Poi il capolavoro di Billy Wilder e un po' anche il suo, A qualcuno piace caldo, dove sveste Marilyn Monroe: «Era praticamente nuda ma, essendo incinta, ho nascosto quella parte ed esibito tutto il resto». Tanto che Jane Fonda ricorda come non si possano staccare gli occhi da quella scollatura: «Non sono gay, però brrr tra quei seni». Terzo Oscar per Orry-Kelly che quando lo ritira ha parole solo per Jack Lemmon e Tony Curtis «che non sono mai sembrati più deliziosi». E infatti sul set aveva fatto arrabbiare la divina Marilyn confessandole che «Tony ha un sedere più bello del tuo».Anni meravigliosi, di eccessi, di bevute, ma poi l'alcol presenta il conto, tumore al fegato e la morte il 27 febbraio 1964. Senza parenti, aveva stilato una lista di «portabara» onorari tra cui c'era Cary Grant. Che però non si presentò. I due erano tornati a vedersi perché l'attore era preoccupato per il libro di memorie che Orry-Kelly stava scrivendo.
«Io ho una vita perfetta, normale - gli diceva Cary Grant - nessuno deve sapere». E infatti il libro non è mai stato pubblicato e il segreto Orry-Kelly l'ha portato nella tomba del Forest Lawn Memorial Park, il cimitero dei divi di Hollywood Hills.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.