La sintesi mitica delle Metamorfosi diviene il più formidabile suscitatore d'altra arte che la civiltà conosca. Di poesia, naturalmente. Uno dei più grandi storici della letteratura, Salvatore Battaglia, ricostruisce il ruolo di primo piano che il poeta, il mitico e l'erotico, svolge nel Medio Evo, come colui che più di ogni altro tramanda e fa rivivere la civiltà antica: durante la Rinascenza carolina del IX secolo e, ancor più, in quella vera e propria Rinascenza del XII, che a buon diritto venne chiamata l'«aetas ovidiana». Non parliamo poi dell'altro Rinascimento, da Petrarca e Poliziano in poi. Ancora in anni recenti il Poeta di Sulmona ha ispirato un bel romanzo, Il mondo estremo, di Cristoph Ransmayr (1988), e un capolavoro della narrativa, Dieu est né en exil (1960), scritto in un meraviglioso francese da un altro esiliato, Vintila Horia, figlio di quella patria romena a me carissima che nelle radici della latinità, poi trascorsa attraverso le vicende della storia, ha riconosciuto la propria identità. Ma l'arte figurativa, ancor più che a Omero e Virgilio, guarda a Ovidio e ne fa fonte d'ispirazione per due millenni. La fioritura sontuosa e miracolosa avvolge la miniatura, la statuaria, la pittura.
Se ne generano alcuni dei più alti capolavori dell'arte della figura; sono tanti, e così alti, che farne un elenco, da Pollaiolo a Raffaello, a Tiziano, a Carracci, a Bernini in poi, sarebbe, più che impossibile, stucchevole. Ricordo solo, per la sua fedeltà ovidiana protratta lungo l'arco della vita, uno dei pittori più cari al mio cuore, Poussin. La storia dell'arte e l'iconologia si sono occupate nel modo più ampio del tema, sebbene esso paia quasi inesauribile; e non certo farò qui una storia della fortuna di Ovidio, altro e da questo diverso libro. Si tratta di un'opera ch'è fonte di apprendimento e, in sommo grado, di godimento. Or anche la musica, sin dalle Odi umanistiche, e soprattutto dalle origini quattrocentesche e cinquecentesche del teatro musicale, sembra guardare alle Metamorfosi e alle Eroidi, ancor più che all'Iliade, all'Odissea e all'Eneide, quali fonti, più o meno rispettate, per attingere storie da narrare e rappresentare; e addirittura per forgiare, traendoli dalla poesia, caratteri e forme drammaticomusicali.
Ovidio nacque a Sulmona, e apparteneva al popolo dei Peligni: Sulmona nella valle Peligna, or verde e aprica, or scabra, come sa chi voglia pervenirvi non con la linea di pullman, ma col lento treno che s'inerpica verso Avezzano costeggiando tratturi che «ab immemorabili» vennero scavati dagli asini selvatici. Il treno va a zig-zag fra le montagne di Forca Caruso per scendere di cinquecento metri in pochi chilometri in linea d'aria.
D'Annunzio apparteneva al popolo dei Marrucini, che s'insediarono nella parte orientale e marina degli Abruzzi. I Marrucini e i Frentani occuparono quella porzione costiera adriatica sulla quale sorge Ortona, patria di Francesco Paolo Tosti, uno dei più eleganti melodisti a cavallo fra Ottocento e Novecento, sodale di D'Annunzio: altra gloria degli Abruzzi, intonò alcune poesie di Gabriele e sarebbe stato degno di mettere in musica qualche carme erotico o melancolico di Ovidio. Gl'Irpini erano una bellicosa popolazione del ramo sannita. L'identità romana e quella italiana scaturiscono dal più fecondo crogiuolo che la storia abbia inventato, quell'assimilazione fatta da Roma delle popolazioni italiche, alle quali il genio politico romano lasciò usi e culti. L'anno, ripeto, trascorreva; e non vedevo apparire alcunché, fosse pure un piccolo articolo. All'inizio di ottobre, conscio di quanto per me fosse, non difficile, difficillimo, scrivere un libro sul tema, ho tuttavia principiato il lavoro. Ed è facile la considerazione: le fortune di Ovidio sono così basse ch'egli dovrà accontentarsi, in mancanza di meglio, di un'opera mia. La difficoltà nasceva per me già dalla disposizione dell'argomento: si poteva fare in cento modi diversi: ne ho scelto uno che, pur esordiendo nei primi due capitoli in modo rigorosamente storico, si configurava dal terzo in poi per aree tematiche. Ossia, se posso osare, mimando il procedimento dell'elaborazione motivica proprio della musica, che già il più grande fratello moderno di Ovidio, Gabriele D'Annunzio, dalla musica desume nei suoi romanzi. Egli parte da Wagner; poi, sempre sul modello wagneriano, Proust nella Recherche e Mann, da I Buddenbrook a Giuseppe e i suoi fratelli, se ne sono serviti, con ductus e originalità proprî e grandissimi.
Non si tratta, per me, che di un metodo: questi numi posso a stento nominarli con venerazione. L'accusa di dilettantismo, che certo mi verrà rivolta, sarà rafforzata dalla circostanza che un'opera come la presente, la quale richiede la conoscenza di biblioteche, è stata scritta in otto mesi. Ma Verdi, con la sua assoluta lucidità in tema di estetica, dice che un'opera d'arte, per quanto lungo ne sia il concepimento, dev'esser rapidamente realizzata affinché lo stile ne sia omogeneo. La presente non è certo un'opera d'arte, è solo una ricerca sull'arte: la legge enunciata da Verdi vale pure per essa. Lo studio per questo libro è stato infatti lunghissimo; è per me incominciato a luglio del 1975, quando, durante il Festival di Monaco, assistetti al Nationaltheater alla Daphne di Strauss sotto la splendida direzione di Wolfgang Sawallisch; quella Daphne che in Italia era stata diretta la prima volta dal «mio», e sommo, Gino Marinuzzi. Pochissimo allora compresi dell'altezza del capolavoro; mi ci sono voluti quarantatré anni: ma il seme entro di me era stato gettato; e infatti ricordo che le mie noterelle l'avevo intitolate «Mollia cinguntur tenui praecordia libro»: verso che ritenevo a memoria insieme con l'episodio del Venticinquesimo dell'Inferno da Ovidio ispirato e col quale Dante afferma di aver gareggiato con lui e di averlo superato. A completare le poche parole sulla ratio del lavoro, non mi sfugge affatto che il soggetto richiedeva ben altra minuzia e vastità, a voler trattarlo esaurientemente e analiticamente. Diciamo mille pagine, invece di poco più di quattrocento.
Credo che il motivo di Ovidio e la musica, prospettato in questa guisa, sarebbe una tesi di laurea o di dottorato. A un anziano scrittore quale sono, il libro del quale apparve quarantaquattro anni fa, si conviene piuttosto l'affresco: più difficile, più rischioso.
Alla mia età si deve osare di più: «Fortem facit vicina libertas senem», dice Seneca nella Fedra; sebbene, che la prossimità almeno comparativa della morte faccia coraggioso il vecchio, è più un auspicio che un fatto. Me lo ha insegnato dapprima, quand'ero ragazzo, l'Alcesti di Euripide; poi, la vita.
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