Piazza Fontana e il film che dimentica l'odio della meglio gioventù

Il regista minimizza la violenza di Lotta continua e dell’intellighenzia contro il commissario Calabresi. E Giordana insinua: io so chi è stato... ma non ho le prove

Piazza Fontana e il film che dimentica l'odio  della meglio gioventù

Una premessa è doverosa. Chi in sede cinematografica o teatrale o letteraria ricostruisce fatti storici non ha l’obbligo di attenersi alla verità: anche perché il più delle volte una verità univoca non esiste, esistono diverse verità. Nel film Romanzo di una strage, Marco Tullio Giordana ha dato una sua versione della strage di piazza Fontana e delle inchieste che ne derivarono. Nessuna obbiezione da muovere al lavoro cinematografico.
Il discorso deve tuttavia essere allargato visto che una parte importante del mondo politico e del mondo culturale fa di quella libera interpretazione un vangelo, e su di essa costruisce riflessioni e accuse. Con molta onestà il regista ammette, con una scritta di coda, che nessuno è stato condannato per lo spaventoso crimine: nessuno nei processi della prima fase, nessuno nei processi della seconda: dove, essendo usciti di scena definitivamente i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, nuovi imputati ebbero il loro ruolo. Come nelle repliche teatrali dove il copione rimane uguale, ma gli attori cambiano. Una strage i cui misteri non sono stati risolti. Ma la cosa non piace. E allora si spiega che Freda e Ventura furono mandati a casa, ma erano colpevoli.
In un articolo su Repubblica dedicato al film e a piazza Fontana, Eugenio Scalfari ha scritto che «io c’ero». Verissimo. E c’ero anch’io. Nel mio primo pezzo sul Corriere della sera avanzai le ipotesi d’una matrice anarchica, d’una matrice di estrema destra, d’una matrice altoatesina (i dinamitardi sudtirolesi erano ancora attivi). Montanelli escluse sùbito la pista anarchica «perché conosco gli anarchici, l’anarchico assume sempre la responsabilità del suo gesto».
Fu portato alla ribalta il «mostro» Pietro Valpreda, poi riconosciuto estraneo all’eccidio. La polizia ebbe torto nell’insistere su questo filone, non nell’averlo imboccato all’inizio, incalzata com’era dall’opinione pubblica che voleva qualcuno da mandare in galera. C’era un testimone, il tassista comunista Rolandi, che aveva riconosciuto in Valpreda un passeggero portato in piazza Fontana. E poi gli anarchici mettono bombe, e Valpreda aveva per motto bombe sangue e anarchia. Era il sospettato ideale. Lo si credette troppo a lungo, e i cultori dello stragismo di Stato vedono in piazza Fontana e dintorni la prova che un perverso disegno criminoso è stato architettato da branche deviate dello Stato, e continua ad esistere.
Alle vittime della bomba nella Banca dell’Agricoltura se ne aggiunsero, è noto, altre due. Il mite anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da un ufficio al quarto piano della questura di Milano, e il commissario Luigi Calabresi, da tutta la sinistra additato alla pubblica gogna come assassino di Pinelli, e abbattuto da un sicario il 17 maggio 1972. «Lotta Continua», querelata dal Commissario per la sua campagna calunniosa, scrisse che «il proletariato emetterà il suo verdetto e nelle piazze e nelle strade lo renderà esecutivo». E a seguire: «Sappiamo che l’eliminazione d’un poliziotto non libererà gli sfruttati, ma è questo sicuramente un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino». L’intellighenzia insorse per il processo intentato a «Lotta Continua». E bollò Calabresi come «commissario torturatore», mettendolo nel mirino delle P38. Tra i firmatari Eugenio Scalfari, insieme a personalità d’indiscutibile livello come Bobbio, Fellini, Soldati, Moravia, Primo Levi.
Nella rievocazione del tempo terribile in cui Calabresi fu costretto a misurarsi con una canea assatanata il film è reticente. Insiste sui dubbi che attanagliavano il commissario circa la colpevolezza degli anarchici, liquida come robetta i suoi tormenti, e lascia in ombra - dopo aver puntato i riflettori sulle trame nere - la trama che condannò a morte Luigi Calabresi. Lo ha sottolineato anche Mario Calabresi, figlio del commissario e direttore della Stampa: «I due anni della campagna di Lotta Continua non ci sono se non per qualche vago accenno».
Secondo Scalfari siamo tuttora ammorbati da cricche e clientele che cominciarono ad agire nientemeno che nel 1898, con Bava Beccaris.

«Forse l’Europa, forse l’esperimento del governo Monti, forse Giorgio Napolitano (forse, aggiungo io, Eugenio Scalfari) riusciranno a purificare l’aria ammorbata che ancora ci opprime». E insieme ad essa l’aria avvelenata di certe firme poste in calce a documenti demenziali.

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