Un piccolo elogio dell'essere pigri... Ma sappiate che l'ozio è una faticaccia

Da Seneca a Barthes ecco i pensatori che difendono il diritto al divano

Un piccolo elogio dell'essere pigri... Ma sappiate che l'ozio è una faticaccia

Altro che destra o sinistra, guelfi o ghibellini, borbonici o filo sabaudi, amici degli yankee o filorussi. La vera battaglia culturale che dilania l'umanità dalla preistoria è quella tra attivi e pigri. La definizione di pigrizia e delle sottospecie sue - come l'ozio, l'accidia e l'ignavia - spacca famiglie e religioni, partiti e movimenti. Ha financo rovinato la digestione al povero Karl Marx provocandogli violenti litigi col genero, Paul Lafargue, che rivendicò in un pamphlet il diritto alla pigrizia. Perché, se dai tempi della cacciata dal paradiso lavorare si deve - «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra» - quanto, e come, si debba lavorare e come si debba riposare sono questioni sulle quali i filosofi non si accordano facilmente. E nemmeno gli illuminati, Buddha diceva: «Dire cosa sia lavoro e cosa non sia lavoro, lascia nel dubbio anche il più saggio degli uomini».

Il semiologo Gianfranco Marrone non ci prova nemmeno nel suo saggio La fatica di essere pigri (Raffaello Cortina, pagg. 164, euro 14) a dipanare questo groviglio. Non perché sia troppo pigro ma perché basta guardare il groviglio stesso, e tracciare la storia delle idee che l'hanno partorito, per generare un interessante strumento di conoscenza. Ovviamente da leggere con calma e stesi sul divano, mentre qualcuno ci accusa di non far niente. La prima paradossale certezza che il libro ci regala è che la pigrizia non può essere mai casuale: «costa fatica». Sottoposta alla fitta sassaiola dello sdegno sin dall'antichità, è una via difficilmente praticabile, occorre difendersi dall'aggressione ideologica altrui. Insomma se pigrizia può esserci, prima deve esserci un duro lavoro per costruire un recinto protettivo di fatti e di idee. Ecco che allora Marrone fa fare al lettore un lungo percorso tra le pagine dei pensatori che questo recinto hanno cercato di costruirlo: Seneca, Kenko Yoshida (1283-1350), François de La Rochefoucauld, Robert L. Stevenson, Paul Lafargue e nel finale Roland Barthes.

Ne esce un ritratto della pigrizia che ha il suo maggior pregio nell'essere una forma di pensiero divergente e creativo. In questo senso è molto illuminante Robert L. Stevenson, il padre del Dottor Jekyll e Mister Hyde: «La cosiddetta pigrizia che non consiste nel non far nulla, ma nel fare tanto di quel che i dogmatici formulari della classe dirigente non riconoscono».

Tutte idee, ad esempio, che piaceranno poco a Marx sempre intento a trasformare ogni proletario in un lavoratore che non si ferma mai e che dentro il lavoro non si «aliena» più ma si realizza totalmente (nemmeno il capitalista più sfrenato è mai arrivato a sognare degli schiavi così). Per fortuna che in casa, come dicevamo, gli si è opposto il marito della figlia Laura, Paul Lafargue con il suo Il diritto alla pigrizia (1883). Per lui sia Marx che i capitalisti stavano diffondendo una «moribonda passione per il lavoro spinta sino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie». Ha però perso la sua piccola rivoluzione - il suocero lo considerava utopista - schiacciato dal produttivismo marxista.

Ma anche oggi che il consumo ha vinto, almeno in Occidente, non è stato vendicato perché è un consumo a ritmo forzato, ben diverso dalla sua idea di morbido loisir.

Ma forse era destino. Essere pigri è un gran lavoro che ognuno deve portare avanti di persona. Senza teorici o partiti. Ogni divano è una trincea che ognuno di noi deve difendere. Sino all'ultimo.

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