Sembrava aver vissuto così tante vite, a migliaia, in picchiata, da poterle perdonare tutte, da perdonare tutti. Vestiva sobrio, indossava occhiali spessi, era nato nel 1930. Pareva millenario, uno degli immortali, sorrideva spesso e si muoveva con calibrata lentezza. Anche le mani, nei poeti, sembrano versi. I poeti in dialetto esordiscono tardi, perché la loro lingua è scavata nella lava, ha in dote una barbarica originalità. Per questo, all'esordio, i poeti dialettali sembrano i titani di un tempo senza mediazioni, quando cantare significava creare, quando cadere era un salmo. Franco Loi pubblica il primo libro nel 1973, s'intitola I cart. Ha più di quarant'anni e un paio di padri nobili: Vittorio Sereni lo stimola a scrivere; Franco Fortini lo spalleggia, scrivendo l'introduzione a un libro fondamentale, Stròlegh (stampa Einaudi, è il 1975). In Loi, legge Fortini, non c'è solo la presenza ferina di Carlo Porta e di Delio Tessa, ma Leopardi, «gli stilnovisti, i mistici antichi e moderni, nordici o orientali», per questo, «il dialetto diventa, in lui, una maschera deformatrice, un segno di irriducibilità alla lingua d'una tradizione considerata oppressiva e aulica. Ma pensiero, strutture sintattiche e moralità profonda sono dell'alto stile italiano». Insomma, Franco Loi fu un colpo di pistola, l'arcangelo Michele che rotea la spada decapitando la statuaria lirica. Fu la rivoluzione della poesia dialettale, prima di lui relegata al vernacolo, al mercimonio della nostalgia. Cantava l'estro, la gioia selvaggia, la brutalità, Loi, la morte, la bastarda, al cui cospetto «è meglio sparire, essere sordi, abbaiare come i cani/ lasciarsi fottere dal dio che mangia gli uomini» (questa va detta in milanese: lassâs ciulà dal diu che magna j òmm), come urla in Per fantasia. Dopo Franco Loi sarà più facile, capire il romagnolo beckettiano di Raffaello Baldini, la litania lucana primordiale di Albino Pierro.
Ultimo della truppa, Franco Loi, con prepotenza, irrompe nel 1978 tra i Poeti italiani del Novecento scelti da Pier Vincenzo Mengaldo. Il critico ne rileva il «comunismo dalle fortissime venature libertarie e anarchiche»: eppure, era il Natale del 2019, i valvassini di Mr. Zuckerberg hanno osato umiliare il poeta obliando dai social un'intervista video concessa ad Affari Italiani. Durante la conversazione, Loi, temerario, aveva detto che «Mussolini è quello che più ha fatto per la classe operaia, dalla mutua, alla malattia, alla pensione», che «Dell'Utri, gran bibliofilo, con la mafia non c'entra nulla», e altre cose sgradite ai più. I granatieri americani del perbenismo, d'altronde, fan bene temere Loi: egli è l'angelo della pietà e della vendetta, sguaina il sorriso ed è intriso di ferocia; i poeti sono incontenibili anche quando li piombi nella mascella di una tomba. Loi dissotterra i morti e cavalca la putrida iena della Storia, «Ho visto dei poveri io la città dei morti.../ cavalcavano giù la terra, come se bronchiosi/ volessero sotterrarsi, o disperati/ voltare il culo a quel cielo...». Loi è l'uomo biblico del grande dolore (Mì g'û 'n dulur de résega, 'na smangia, latra in Teater), maneggia la memoria come un'ascia, ha bisogno di disossare l'incubo fino al più infimo filo di luce, d'altronde, «Siamo poca roba, Dio, siamo quasi nulla/ ...un soffio dell'aria/ ombra degli uomini che passano.../ forse il ricordo d'una qualche vita perduta» (da Liber).
Era nato a Genova, incidentalmente, avrebbe compiuto 91 anni tra due settimane. Il padre era sardo, la madre emiliana; ha passato l'infanzia a Casoretto, «El Casorett», alla periferia di Milano; ha visto lo schianto della Seconda guerra. Loi è l'angelo del fango, il cui pudore è figlio della foga e della scaltrezza, amore che avviene per scontrosità. Inizia a lavorare a tredici anni, come disegnatore di ceramica; a sedici è allo Scalo Merci di Milano Smistamento. Nel lungo, magmatico, testamentario poema L'angel (edito nel 1981 e compiuto nel 1994), Loi racconta, tra gli incontri epocali, quello con Luciano Zonca, «fu il primo, quando avevo 14 anni, a farmi leggere Nietzsche. Aveva fatto il pugile, era anche finito precocemente in prigione. Per noi era un idolo, perché sapeva cantare, ballare, e aveva fama di grande amatore. Faceva l'imbianchino». Aveva preso il diploma da ragioniere frequentando le serali, si era iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, l'approdo, nel 1960, in Mondadori, come addetto stampa, fu una svolta, una grazia. Aveva praticato anche nell'ufficio pubblicità della Rinascente. Quando incontra l'estroso Giacomo Noventa, il poeta, amico di Jacques Maritain, di Renato Gottuso e di Adriano Olivetti, antifascista, non dimentica di cantare la sua periferia, «la luna che fa di cera/ il muoversi degli uomini che vanno nella notte ascosa e sapiente», a Casoretto, e s'intrufola e fa chiare le cose/ ...va come pietà sui sogni degli uomini che sotto i tetti s'ammalano». Dalla palude umana, sempre, Loi estrae l'iride di diamante, il punto inesorabile, al di là di ogni pietà concessa.
Negli anni '70 flirtò con la lotta armata. «Nel 1983 venne anche arrestato per falsa testimonianza e indicato come uno dei capi delle BR: condannato a un anno in primo grado con la concessione della libertà provvisoria, venne poi assolto nel processo d'appello» (Daniele Piccini). Chissà se lo sapevano, i gendarmi di Facebook. Continuò a pubblicare libri ispidi e felici, Loi, Amur del temp (Crocetti, 1999), Isman (Einaudi, 2002), I niül (Interlinea, 2012); l'anno scorso, quasi un sospiro in forma di sigillo, Garzanti ha pubblicato il romanzo biografico, Da bambino il cielo.
Sapeva lo splendore senza leggi della terra («L'amore non vuole morale, legge incarnata/ vuol bene al mondo, al dio, al suo pensare», in Verna), sapeva guardare le stelle («qualcosa brilla lassù/ e basta alzare la testa e viene allegria»), come fanno i poeti, con irata innocenza. «L'amore, da sempre nel poeta milanese rivolto non solo a una creatura ma a tutto l'insieme del mondo, è la spinta alla conoscenza vera, non quella formale della mente, ma l'altra, sostanziale, che fa appello a tutte le forze dell'uomo», ha scritto Daniele Piccini nel reperto antologico La poesia italiana dal 1960 a oggi (Bur, 2005).
Cunuss vör dì vardà e inamuràss, diceva Loi, un verso che rende irrisori i cimiteri, perché anche i morti guardano e si innamorano. Infine, diventò un poeta perfino leggendario. Quando gli stringevi la mano pareva di afferrare un falò, poi un cristallo. Accade così quando ti sembra di avere un angelo sul torso.
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