Quando la Milano della cultura era "Questo e altro"

Un'antologia della rivista di Sereni&Co. che segnò il dibattito letterario, e non solo, negli anni '60

Quando la Milano della cultura era "Questo e altro"

Più che una antologia, scrive Valeria Poggi, che ne è l'infaticabile curatrice, questo libro (Arrigo Lampugnani Nigri, Questo e altro Storia di una rivista e di un editore, Stampa edizioni, pagg. 202, euro 23) è una preziosa testimonianza diretta di un periodo della nostra storia culturale che meritava di essere sottratta alla dimenticanza. Si tratta di una rivista, Questo e altro, che uscì in otto numeri dal 1962 al 1964, pensata da Vittorio Sereni, Niccolò Gallo, Dante Isella e Geno Pampaloni, che si avvalsero della fattiva collaborazione del giovane Raboni, e che trovarono un appassionato editore in Arrigo Lampugnani Nigri, esponente di una grande famiglia industriale lombarda.

Come annota Alberto Bertoni nella ottima introduzione, una rivista così non poteva che nascere nella Milano di allora, dove la sfera del discorso letterario, «questo», sapeva intersecarsi con l'«altro», la sfera sociale, politica, industriale, editoriale. E non poteva che nascere avendo come collante il sentimento dell'amicizia. Amici erano Arrigo Lampugnani Nigri e Raboni, detto il Rab, sin dagli anni del Liceo Parini e della formazione; le pagine dell'uno e dell'altro nel libro offrono al lettore gustosi aneddoti e giudizi su come evolve il loro rapporto. Il grande borghese Arrigo, nella sua casa di Corso Venezia, ha docenti privati che si chiamano Vittorio Sereni ed Enzo Paci, che diverranno quanto di meglio si poteva trovare allora in città tra letteratura e filosofia.

Li ho conosciuti entrambi, Sereni quando era già direttore editoriale della Mondadori e riceveva in uno spoglio bugigattolo, cordiale, lontano da ogni senso di potere; Enzo Paci, professore di filosofia teoretica all'Università Statale, immensamente carismatico, le cui lezioni erano frequentate non soltanto da noi studenti ma anche da appassionati della materia e da signore della buona società, direttore di un'altra rivista, aut-aut, che faceva incontrare magistralmente la filosofia con la letteratura, la poesia, l'arte, la musica, il teatro. Da Via Festa del Perdono, dove c'è l'Università, bastava un passo ad arrivare al Teatro Piccolo di Grassi e Strehler, dove nel foyer capitava di vedere Milva con una selva di capelli rossi cui nessuna fotografia faceva giustizia e gli assistenti di Paci, già mitici per noi studenti, il trasandato e vociante Aldo Rovatti, l'alto, elegante e signorile Salvatore Veca, che in questo libro è presente con una bella intervista concessa a Valeria Poggi.

Una Milano che il Sessantotto avrebbe stravolto, e che oggi, con la cultura letteraria divenuta la cenerentola della società, appare incredibile. Nel libro, le note di diario di Lampugnani Nigri, nitide e eleganti, non prive di tratti di humour, sono inframmezzate da lettere che documentano il lavoro preparatorio della rivista. Ne sono autori, oltre a Sereni e Paci, vicini affettuosamente al giovane allievo-editore, pittori come Manzù e Guttuso, figure come quella di Giovanni Pirelli, fratello del più noto Leopoldo, che preferì all'azienda di famiglia la militanza letteraria, e che inseguì con Lampugnani il progetto, abortito, di una nuova rivista e casa editrice di estrema sinistra: in un momento di autoironia molto da quartieri alti Pirelli propose di chiamarla con la sillaba iniziale dei loro due blasonati cognomi: PIR.LA.

Lunghe lettere sono di Franco Fortini, che con i suoi modi un po' verbosi e umorali ma dotati di intelligenza tagliente e a tratti profetica, parla dei partiti tradizionali diventati «pure e semplici centrali clientelistiche ed elettorali» ma anche dell'inadeguatezza di tanti scrittori, anche tra i collaboratori della rivista, ad andare oltre il limite di un ordinario discorso letterario. E saluta scrivendo: «Fuor dalle posizioni estreme, nulla salus».

In una Milano che successivamente avrebbe conosciuto estremismi, deliri maoisti e violenza, la vita intellettuale era vivissima, apertissima. A sfogliare gli indici degli otto numeri della rivista si vedono sfilare tutti: Vittorini, Calvino, Arpino, La Capria, Zanzotto, Pratolini, Pizzuto, e tra gli stranieri William Carlos Williams,Adorno, Butor, Nazim Hikmet, Attila Jòzsef, Di Mario Luzi, viene ospitata una poesia come Nel magma, una svolta per il poeta fiorentino. Di Pasolini quello sperimentale, cinematografico, esemplare testo intitolato Una disperata vitalità. Di Enzo Paci, si legge un saggio strepitoso, A cominciare dal presente, dove prendendo lo spunto da Proust e Joyce il filosofo rivendica un superamento della crisi, un ritorno alla soggettività come «negazione della negatività», e un umanesimo totale: essere scrittore non vuol dire compiere la sola operazione di scrivere, perché «nello scrivere e nel leggere è sempre presente tutto l'uomo».

Non rimpiango certo

la mia giovinezza milanese di studente povero e con i nervi a pezzi, ma quel clima, quelle intelligenze, quei confronti, quel valore sociale dato all'umanesimo e alla letteratura, nel deserto di oggi come non rimpiangerlo?

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